Notizie dal mondo dei seminari – 33

 

a cura della segreteria

internazionale

del movimento gens

 

Perché tutti siano uno

 

Comunione e mistero pasquale

 

Quello della comunione non è un tema indolore. Tutti, in linea di principio, sono d’accordo che essa rappresenti una priorità nella vita della Chiesa oggi, e tanto più dei seminari. Tuttavia, proprio a questa istanza sono legate tanta delusione e rassegnazione. La comunione, sembra, è un bel valore, una bella parola, ma quando si tratta della sua effettiva realizzazione, tanti, pur con rammarico, sono piuttosto scettici. Si potrà stabilire un rapporto d’amicizia con l’uno o con l’altro, si potrà anche trovare la maniera di comportarsi correttamente con tutti, ma creare un vero rapporto di comunione fra tutti sembra un ideale quasi utopico.

Eppure, spesso basta che ci sia qualcuno che ci creda per davvero. Come X., in un seminario della Germania. Con dispiacere egli si rendeva conto che, durante i momenti di condivisione nei gruppi in cui si articola il seminario, difficilmente si parlava della propria esperienza. Egli si propose quindi di cogliere quelle occasioni per “non parlare di altri, ma di se stesso”.

Al primo tentativo, il risultato non era proprio confortante. Durante un incontro con il suo gruppo, il padre spirituale espose un determinato punto della regola di vita. Silenzio. X. raccoglie allora tutto il proprio coraggio e dice come egli cerca di vivere questo punto. Nuovamente silenzio.

Viene il periodo dell’Avvento. Per X. è l’opportunità di andare soprattutto verso coloro che in qualche modo vengono lasciati ai margini della comunità. Si stabilisce così un rapporto con vari studenti. A volte essi si ritrovano e si realizza tra loro una bella condivisione. Ne nasce poi un’idea: quando tutta la comunità si riunisce prima del Natale, si inizia con una mezz’ora di scambio. Per la prima volta si riesce a parlare seriamente di quello che vivono i singoli studenti. Anche se non tutti intervengono, il “muro del silenzio” è crollato.

Il fatto è che la comunione è realtà pasquale. Perché nasca, c’è sempre un prezzo più o meno grande da pagare: un rischio da correre, un primo passo da fare, una mano da tendere, un’idea o un progetto da posporre per “fare spazio al fratello”. Ne ha parlato lucidamente Giovanni Paolo II, quando ancora un anno fa ha ricordato che con la Novo millennio ineunte ha voluto invitare “l’intero popolo cristiano a fissare lo sguardo sul volto di Cristo crocifisso e risorto” per “approfondire il mistero di dolore e di amore da cui nasce e si rinnova costantemente la Chiesa-comunione”, ed ha sottolineato che “l’amore al Crocifisso, contemplato nel momento culminante della sofferenza e dell’abbandono, costituisce la via maestra (…) per rendere sempre più effettiva la comunione a tutti i livelli della compagine ecclesiale”.

Quando si parte da lì, l’utopia si fa realtà.

 

 

 

 

 

Un lavoro che inizia dentro di noi

Innanzi tutto, ascoltarci

Italia. «Insieme ad alcuni compagni del seminario dovevo preparare la veglia di
preghiera in suffragio del nostro vescovo defunto. Ma il clima fra noi non era per niente sereno e non riuscivamo a mettere in atto un lavoro comune. Tutti sembravano arroccati sulle proprie idee, tutte belle, ma tanto diverse. Ho cercato di abbracciare questo dolore e mi sono messo ad ascoltare ciascuno profondamente. Dopo un po’ un compagno mi ha chiesto: "Ma tu non vuoi dire niente?”. L’ho guardato negli occhi e ho fatto presente che forse innanzi tutto dovevamo ascoltarci e poi avremmo
compreso il da farsi. Pian piano il clima cominciava a mutare e infine abbiamo
trovato la strada. Quando a tarda sera abbiamo concluso, tutti eravamo stanchi, ma nella pace e qualcuno ha chiesto pure scusa di come si era mosso in un primo momento. Dopo la veglia il rettore ci ha chiesto a che cosa ci eravamo ispirati nella preparazione. “All’unità”, ha risposto
proprio quel compagno che aveva chiesto scusa. E il rettore, visibilmente contento: “Avete preparato le cose con armonia e ci siete riusciti». (M.S.)

Prendere l’ultimo posto

Svizzera. «In preparazione al seminario, frequento una scuola per adulti per
conseguire la maturità, e vivo in una casa parrocchiale. La pulizia della canonica è affidata ad una signora, ma di quella della scala mi occupo io. Un giorno in cui ero tanto preso dalla studio, mi sono accorto che la scala era sporca. Dopo un po’ di
esitazione, sono andato a chiedere alla signora gli attrezzi necessari. Per tutta
risposta ella mi ha detto: “Se già pulisci la scala, potresti fare anche la sala delle
conferenze”. Quelle parole mi hanno ferito, perché suonavano come un’imposizione. Inoltre, volevo il più presto possibile
riprendere lo studio. Ma poi mi veniva in mente, cosa significa prendere l’ultimo posto. Allora ho accettato quel piccolo dolore e mi sono messo a pulire anche la sala, per Gesù in quella signora. Alla fine lei mi ha portato un dolce ringraziandomi calorosamente. E’ stato il centuplo». (S.P.)

Correzione fraterna

Filippine. «Un giorno, un compagno mi ha chiesto di parlarmi. Ho accettato, e lui, con delicatezza, mi ha fatto presente alcuni punti deboli del mio comportamento ai quali dovrei prestare più attenzione.
Pensando che mi comportavo abbastanza bene, mi sono sentito umiliato. “L’uomo vecchio” in me si è ribellato e subito avrei voluto far notare a questo mio compagno i suoi limiti. Ma l’amore, che proprio con lui ci siamo promessi di vivere, era più forte ed ha fatto tacere il mio “io”. Con semplicità ho accolto la verità e il dolore che
comportava ed ho ricominciato ad amare. Dopo alcuni giorni mi sono reso conto quanto il mio compagno mi ha aiutato per essere una persona migliore e più libera. Sono andato a ringraziarlo e gli ho detto che sono contento di accogliere altri momenti di verità». (J.T.)

«Se voglio la pace,
devo cominciare nel mio ambiente»

Belgio. «Mi sono trovato a fare un
viaggio in macchina con uno dei nostri
professori con il quale noi studenti ogni tanto abbiamo qualche problema.
Puntualmente è nata una discussione con lui, ed alla fine abbiamo litigato, in fondo
per una cosa banale.
Trovandomi più tardi con i seminaristi, pur essendo conscio che non era giusto, ho
raccontato loro quanto era avvenuto. E
subito si facevano largo dei giudizi nei
confronti di quel docente. Nei giorni
successivi, l’atmosfera nel nostro piccolo seminario era poco serena. Capivo che dipendeva da me cambiare qualcosa.
Durante una preghiera per la pace mi sono detto: “Se voglio la pace, devo cominciare nel mio ambiente”. Ho avvicinato allora il
professore per parlare con lui. Era un momento molto bello. Insieme abbiamo deciso di ricominciare. Dopo ho cercato di fare la mia parte anche in seminario, coi compagni. Ho capito che aiuta molto
mettere in luce sempre il positivo. Così facendo, non si comincia a giudicare gli altri». (J.S.)

 

 

Fare spazio al Fratello

Nessuno, come Gesù abbandonato, s'è fatto uno con i fratelli. Per questo Egli è il modello di colui che ama, è la via e la chiave dell'unità con i prossimi.

"Farsi uno”. Ma cosa significano e cosa esigono queste due piccole parole, così importanti da essere il modo d'amare?

Non si può entrare nell'animo di un fratello per comprenderlo, per capirlo, per condividere il suo dolore, se il nostro spirito è ricco di una preoccupazione, di un giudizio, di un pensiero,… di qualunque cosa. Il “farsi uno” esige spiriti poveri, poveri di spirito. Solo con essi è possibile l’unità.

E a chi si guarda, allora, per imparare questa grande arte d’esser poveri di spirito, arte che porta - lo dice il Vangelo - il Regno di Dio con sé, il regno dell’amore, l’amore nell’anima? Si guarda a Gesù abbandonato. Nessuno è più povero di Lui: Egli, dopo aver perso quasi tutti i discepoli, dopo aver donato la madre, dà anche la vita per noi. E prova la terribile sensazione che il Padre stesso lo abbandoni.

Guardando Lui, si comprende come tutto va dato o posposto per amore dei fratelli: vanno donate o posposte le cose della terra ed anche - se occorre - in certo modo, i beni del Cielo. Guardando Lui, infatti, che si sente abbandonato da Dio, quando l’amore per i fratelli ci chiedesse (e può succedere anche spesso) di lasciare persino - come si dice - Dio per Dio (Dio per esempio nella preghiera, per “farsi uno” con un fratello nel bisogno; Dio in quella che ci sembra un’ispirazione per essere completamente vuoti ed accogliere in noi il dolore del fratello), guardando Lui è possibile ogni rinuncia.

E il “farsi uno” comporta questa rinuncia, anche se poi sappiamo quale ne è il guadagno. I fratelli amati così sono spesso conquistati a Cristo (“mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi son fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno”; 1Cor 9, 22). E, una volta conquistati, anch’essi amano ed ecco l’unità.

Chiara Lubich

 

(Da: L’unità e Gesù abbandonato, Roma9 1998, pp. 104-106)

 

 

Il Vuoto

 

«Signore, tu sei nostro padre;

noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma,

tutti noi siamo opera delle tue mani» (Is 64, 7).

 

Plasmare la creta per fare un bel vaso non è tutto

Il colore, l’ampiezza e la sua attrazione non ne danno l’utilità,

ma il vuoto centrale.

 

Una casa è utilizzabile se vuota;

l’utilità essenziale appartiene al vuoto.

 

L’uomo non è importante per la sua altezza,

per la sua bellezza, il suo aspetto, ma per ciò che porta dentro.

Dentro l’uomo trovi ciò che vi può entrare nella misura del suo vuoto. (…)

 

Ho cercato Dio e non l’ho trovato.

Ho cercato me stesso e non mi son ritrovato.

Ho accolto l’altro e in lui ho incontrato tutti e tre.

 

Accogliere è avere pienezza dell’Essere.

Una stanza senza porte e finestre non “è” stanza,

perché non vi si può sostare. (…)

 

Ritagliamo porte e finestre nelle pareti;

questi vuoti la rendono accessibile e ne realizzano il suo fine

ospitale ed accogliente.

 

Dio Padre ha ritagliato la sua porta di accesso.

Il Crocifisso è il vuoto attraversabile per accedere al Padre.

Egli è la porta d’accesso e il ponte percorribile

che colma il vuoto abissale di separazione.

 

Senza il vuoto non c’è pieno, non c’è pienezza.

Senza l’esperienza del Vuoto Cristico;

non è possibile giungere alla pienezza del proprio Essere

che trova radici celesti.

 

Noi, se intagliamo nella parete di noi stessi uno spazio vuoto,

daremo accesso all’Altro.

Il pieno ha la sua funzione, ma l’utilità essenziale appartiene al vuoto.

 

Cristo nella kénosis è il Vuoto, ed è in quel Vuoto che siamo stati accolti.

Chiamati altresì al vuoto, non ci resta che accogliere.

Egli vuoto di sé si è riempito di noi.

Egli nel Nulla d’Amore ha fatto il Pieno di noi in Dio e di Dio in noi.

 

Plasmaci o Signore e donaci la forma di calice vuoto

per essere riempiti di Te.

Noi siamo argilla e Tu colui che ci ha ridato forma in Cristo.

 

                                                            Giacinto Magro