La Chiesa nel Mondo

Convegno ecumenico
di vescovi in Svizzera

Il Grossmünster, l’antica chiesa che domina la città di Zurigo e dove Huldrych Zwingli iniziò la sua Riforma, il 17 novembre scorso ha accolto ospiti di rilievo provenienti da vari Paesi. Assieme al pastore Ruedi Reich ed a Chiara Lubich, vi sono convenuti il cardinale Miloslav Vlk di Praga, il vescovo ausiliare cattolico per Zurigo Peter Henrici e altri 21 vescovi di 9 Chiese: ortodossi, siro-ortodossi, anglicani, evangelico-luterani, cattolico-romani. Con oltre 1300 persone da tutta la Svizzera, riformati e cattolici, membri di Movimenti di diverse Chiese, religiosi e religiose, ma anche persone distanti dalla vita di fede, essi, nel segno della riconciliazione e della fratellanza, hanno invocato da Dio il dono della piena unità visibile della Chiesa.

«Tre o quattro anni fa non avrei immaginato che un avvenimento di questa portata potesse aver luogo qui, al Grossmünster», ha commentato il vescovo ausiliare per Zurigo, Henrici. «Ero scossa e sfiduciata dopo i tragici eventi dei mesi scorsi – commenta una donna – ma ora ho ritrovato la speranza». Mentre una ragazza afferma: «Ho difficoltà con tutto ciò che riguarda la Chiesa. Ma qui ho avvertito qualcosa di carismatico che irradiava al di sopra di tutto». E qualcun altro ancora: «Oggi ho sentito una chiamata speciale a vivere la solidarietà e la fraternità».

«Da oltre 1000 anni il Grossmünster è un luogo di annuncio del Vangelo». Con queste parole il pastore Ruedi Reich, presidente del consiglio della Chiesa evangelico-riformata nel cantone di Zurigo, in apertura della grande celebrazione ecumenica aveva sottolineato non la rottura ma ciò che unisce. Ed aveva ricordato l’antica tradizione di questa chiesa edificata da Carlo Magno sulle tombe dei martiri Felice, Regola ed Essuperanzio della Legione tebana. Fu qui e nel vicino Fraumünster che Zwingli, assieme ai suoi collaboratori, tradusse la Bibbia in tedesco.

Un pressante appello
alla piena comunione fra i cristiani

Dopo una preghiera d’apertura formulata dal parroco del posto, Hans Stickelberger, e la lettura della Preghiera di Gesù per l’unità (Gv 17), Chiara Lubich è stata invitata a prendere la parola.

Lei nota che, in seguito agli eventi dell’11 settembre scorso, la riconciliazione fra i cristiani non può restare soltanto un desiderio ma è un’assoluta necessità. E ribadisce: «Non è tutto solo colpa del terrorismo, se stiamo vivendo un momento di tanta emergenza». E non è neppure da attribuire semplicemente al fatto pur grave «che nazioni più ricche non hanno aiutato altre nazioni in grande ed estrema povertà». C’è anche, secondo la fondatrice dei Focolari, una seria responsabilità dei cristiani che spinge ad agire con urgenza: «Se oggi alcuni arrivano, tragicamente, a qualificare noi cristiani addirittura come ‘atei’ e ‘infedeli’, una ragione c’è…».

Bisogna riconoscere, infatti, che pur essendo oltre un miliardo nel mondo, siamo ancora divisi. Mentre solo nell’amore reciproco, nell’unità, secondo le parole di Gesù, c’è il distintivo vero dei cristiani. «Lavoriamo. Non diamoci pace», esorta quindi la Lubich e aggiunge: «Quando ci sarà fra noi la piena comunione visibile, un fremito di nuova vita invaderà la terra per il bene dell’umanità». Parole che hanno avuto un forte impatto sui presenti e sono state accolte con un lungo applauso.

Mentre la cerimonia prosegue, fra i canti eseguiti da una nutrita corale giovanile e le preghiere, l’assemblea si fa sempre più compatta.

E non manca una certa commozione nel momento in cui cinque vescovi di diverse Chiese e il pastore Reich formulano davanti a tutti le loro intenzioni di preghiera; quando tutti insieme recitano il Padre nostro; quando i vescovi presenti si dirigono fino ai posti più remoti della chiesa per dare un segno di pace e unità ai fedeli, così come quando Chiara Lubich con una preghiera chiede a Dio di suggellare la volontà della ricerca dell’unità dei cristiani «in modo tale da essere e apparire a tutti una sola comunità cristiana, preludio e testimonianza della piena comunione visibile della Chiesa».

«Lasciamoci incoraggiare dalla gioia della cerimonia che abbiamo vissuto stasera», così il pastore Reich durante il ricevimento coi vescovi e i responsabili del Movimento dei focolari subito dopo la cerimonia. Ed aggiunge: «L’ecumenismo non deve essere l’eccezione ma la regola, la normalità. È importante che sottolineiamo quello che già ci lega, rispettando ciò che ancora ci distingue».

Spiritualità di comunione tra le Chiese

Questo avvenimento ecumenico era stato preceduto da una settimana di convivenza fraterna tra 24 vescovi di varie Chiese, esperienza che si ripete da 20 anni. Quest’anno si era svolta al Centro Unità, a Baar nel cantone di Zug in Svizzera, dal 13 al 20 novembre. Provenivano da 12 nazioni: dalla Siria alla Svezia, dall’Inghilterra all’India.

Si trattava di «fare un’esperienza di quella spiritualità di comunione che secondo Giovanni Paolo II deve caratterizzare tutto il nostro agire e, a maggior ragione, il nostro agire ecumenico», spiega il moderatore del Convegno, il card. Vlk. E il frutto è stato visibile.

«Nella preghiera in comune e nel dialogo fraterno, durante le meditazioni bibliche e le conversazioni di spiritualità ecumenica, abbiamo potuto sperimentare quasi un presagio della piena comunione visibile fra le Chiese», affermano i vescovi nei messaggi che hanno inviato ai Capi delle rispettive Chiese a conclusione della loro riunione. Messaggi nei quali hanno espresso senza mezzi termini la loro risoluzione di testimoniare, in seno alle Chiese e tra i fedeli loro affidati, «quella fratellanza che ci unisce sin d’ora, e di adoperarci in ogni modo, affinché si affretti il giorno nel quale i cristiani potranno accostarsi insieme alla mensa del Signore e testimoniare in pienezza Cristo all’umanità, attraverso la nostra visibile unità».

Una via per affrontare
anche le differenze

Mentre nelle edizioni precedenti del Convegno ci si era soffermati di più a sottolineare gli aspetti di convergenza, questa volta si sono toccati anche alcuni punti di divergenza, perché, come spiega il card. Vlk: «La profonda unità in Cristo che abbiamo cercato di realizzare, permetteva di dialogare su argomenti delicati come l’eucaristia o il ministero petrino in un clima di amicizia e nel vicendevole ascolto».

Tornando nei loro Paesi, i vescovi vogliono approfondire questi temi e, nel Convegno dell’anno prossimo, si spera di raccogliere i primi frutti.

Nel desiderio di «conoscere di più la tradizione dell’altro per potersi amare di più», i partecipanti hanno visitato anche diverse comunità cristiane del posto: dall’Abbazia benedettina di Einsiedeln, al Monastero siro-ortodosso di Sant’Augin ad Arth e a Zurigo «sulle orme di Huldrych Zwingli». Occasioni per dare insieme una testimonianza di quella fraternità che è forse il risultato più importante del cammino ecumenico fin qui compiuto.

Giornata d’incontro
con personalità di varie Chiese

Il ricco frutto di questo Convegno è confluito nell’ultima giornata, quando altre 32 personalità del mondo ecumenico sono venute a Baar, fra cui rappresentanti delle Chiese riformate svizzere, delle Chiese libere, del Consiglio ecumenico delle Chiese a Ginevra, della Federazione luterana mondiale, del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e di altri Patriarcati ortodossi, della Chiesa Armeno-apostolica in Francia, il nunzio apostolico di Berna e altri vescovi cattolici. A loro Chiara Lubich, in un efficace intervento, ha fatto dono dell’esperienza e della fecondità che si sprigiona dal mistero di “Gesù crocifisso e abbandonato: luce sul cammino verso la piena comunione fra le Chiese”. Sono seguite testimonianze di vescovi, sacerdoti, pastori e laici che approfondivano la spiritualità di comunione vissuta nel Movimento dei focolari nell’ambito dell’evangelizzazione, nel lavoro teologico e nell’azione per il rinnovamento della società.

«È questa una spiritualità che ci incoraggia, che apre nuove porte, che ci fa vedere nuove strade nel linguaggio della fede», ha commentato il dott. Martin Robra, rappresentante del Consiglio Ecumenico delle Chiese. E il direttore dell’Istituto ecumenico di Bossey, il sacerdote rumeno ortodosso Ioan Sauca: «Se non scopriamo una spiritualità di comunione, l’ecumenismo rischia di fermarsi a dichiarazioni vuote. Chiara Lubich ci indica la via per vivere la nostra identità in un contesto di pluralità».

Lavorare per l’unità
tra Oriente e Occidente

«Il cammino di riconciliazione tra Oriente ed Occidente sia per voi una preoccupazione costante e prioritaria, come lo è per il vescovo di Roma». È l’auspicio che Giovanni Paolo Il ha espresso davanti a circa 500 studiosi ricevuti in udienza a conclusione del Simposio internazionale per il decimo anniversario dell’entrata in vigore del Codice dei canoni delle Chiese Orientali, promosso in Vaticano nello scorso novembre dalla rispettiva Congregazione.

Ora, nella luce profetica degli eventi giubilari trascorsi, egli ha rinnovato l’invito a guardare «con speranza, all’inizio del terzo millennio, al cammino futuro verso la piena unità dei cristiani». Giustamente, perciò, il Simposio ha avuto presente «la necessità di intensificare le relazioni fraterne con gli altri cristiani e, in particolare, con le Chiese ortodosse».

Con questo spirito il Papa aveva compiuto i recenti viaggi apostolici in Grecia, Siria, Ucraina, Kazakhstan e Armenia. E ricordava con gioia le liturgie e gli incontri fraterni vissuti in questi Paesi e che erano stati per lui «un incessante motivo di consolazione».

In Armenia, egli aveva avuto espressioni molto toccanti riguardo all’ecumenismo: «Dobbiamo – diceva – gareggiare tra noi non nel creare divisioni o nell’accusarci reciprocamente, bensì nel dimostrarci mutua carità. L’unica competizione possibile tra i discepoli del Signore è quella di verificare chi è in grado di offrire l’amore più grande».

E, sempre in Armenia, in un’altra occasione: «Mai più cristiani contro cristiani, mai più Chiesa contro Chiesa! Camminiamo piuttosto insieme, mano nella mano, affinché il mondo del ventunesimo secolo e del nuovo millennio possa credere».

Giovanni Paolo Il, concludendo l’udienza, si compiaceva perché durante il Simposio era venuto in rilievo che l’ordine a cui deve mirare  il Codice è appunto «quello che assegna il primato all’amore, alla grazia e al carisma», un veicolo di quella carità che «dev’essere profondamente radicata nell’anima di ogni essere umano».

Il dialogo teologico
tra cattolici e anglicani

Il 24 novembre 2001 i 15 componenti del nuovo Gruppo internazionale di lavoro cattolico-anglicano, istituito lo scorso anno in Canada e giunto a Roma per l’incontro inaugurale, sono stati ricevuti da Giovanni Paolo II.

Nell’occasione il Papa ha ripercorso le grandi tappe del cammino ecumenico della Chiesa anglicana e della Chiesa cattolica, un cammino certamente faticoso e forse ancora lungo, ma che ha già prodotto tanti frutti. Ora si richiedono ulteriori sforzi, nella «speranza di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo Spirito, capace di sorprese sempre nuove».

Il pensiero del Papa è andato spontaneamente all’incontro tra Paolo VI e l’arcivescovo di Canterbury Ramsey nel 1966, da cui scaturì la prima Commissione internazionale anglicano-cattolica, con la loro Dichiarazione comune che avviò un dialogo serio e fruttuoso.

Poi il nuovo impulso dato al dialogo durante la visita di Giovanni Paolo II a Canterbury nel 1982, quando l’arcivescovo Runcie e lo stesso Giovanni Paolo II istituirono la seconda Commissione internazionale e nella loro Dichiarazione congiunta riconobbero la necessità di sviluppare il dialogo teologico nella mutua comprensione, nell’amore fraterno e nella comune testimonianza del Vangelo.

Altra pietra miliare, nel 1996, quando l’arcivescovo Carey e Giovanni Paolo Il pubblicarono una Dichiarazione comune, da cui apparve sempre più chiaro che «la piena e visibile unità non sarebbe venuta come risultato della volontà e dei programmi umani, per quanto importanti essi siano, ma come un dono divino – ha detto il Papa – in un tempo che noi non possiamo conoscere ma per il quale ci dobbiamo preparare».

Per i prossimi passi concreti, il Papa ha sottolineato che «solo l’esperienza di una più profonda comunione ci consentirà di rendere una più efficace testimonianza a Cristo nel mondo e di compiere la missione che ci ha affidato». «È chiaro – ha poi aggiunto – che la mancanza d’unità ha danneggiato la nostra missione nel mondo».

Di fronte al sorgere di scoraggiamenti e nuove difficoltà, Giovanni Paolo II ha invitato a confidare nella potenza dello Spirito Santo, il quale può compiere quello che a noi sembra impossibile.

 

a cura della redazione