La nostra comprensione della Parola di Dio si arricchisce vivendo la sapienza

 

Un’esperienza di formazione

di Ramón Dus

 

L’autore, dottore e docente in Sacra Scrittura e rettore di seminario in Paraná (Argentina) dopo una consistente attività pastorale, ci dona la sua esperienza mostrando, tra l’altro, l’importanza della vita e dell’unità vissuta per la comprensione della Bibbia, e per la rilevanza e incisività della Parola di Dio nella storia umana.

Nel lavoro di ricerca della mia tesi in Sacra Scrittura, ho trovato una frase di  Einstein che mi ha illuminato sul metodo dei miei studi: «È assolutamente scorretto credere che una teoria si sviluppi a partire dall’osservazione. È vero il contrario. È la teoria che decide ciò che possiamo osservare».

A prima vista potrebbe apparire unilaterale e persino ideologicamente pericolosa un’affermazione di questo tipo. Eppure contiene una verità innegabile. Ognuno riesce a “vedere” soltanto ciò che in qualche modo già possiede dentro di sé. Non dicevano gli antichi che «quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur»?

Ci avviciniamo ad ogni testo, ad ogni realtà, con delle esperienze, con dei pre-giudizi, e questi hanno un influsso decisivo su ciò che riusciamo a capire, in bene ed in male. Possono deviarci e deformare la conoscenza, o possono aprirci a significati e a comprensioni che altrimenti non riusciremmo mai a raggiungere.

Se dovessi dirlo con più precisione, raccogliendo l’esperienza mia e di tanti altri, più che di teoria parlerei di un’intuizione, una visione delle cose che dà una chiave di lettura, una lente con la quale si osserva meglio l’oggetto che si vuole analizzare. Così è nello studio, così è in tutta la nostra esistenza.

Si constata che, se c’è in noi l’amore di Dio che è luce, essa orienta ed illumina anche la nostra conoscenza. Lo afferma abbondantemente la Scrittura e lo si potrebbe fondare da tanti punti di vista (antropologico, psicologico, pedagogico, sociologico…). La conoscenza diventa così un’avventura, qualcosa di più completo. Parte da tutta l’esistenza umana e a sua volta la nutre non in modo solo cervellotico ma integrale.

Per ciò che mi riguarda, l’aver scelto Dio e il suo amore come il tutto della mia vita, l’ho avvertito sempre come l’atto d’intelligenza più alto che potevo realizzare, guida preziosa ed illuminatrice dei miei passi come uomo, come studioso, come formatore.

Gli studi a Roma

Quando sono arrivato a Roma per iniziare il dottorato nel Pontificio Istituto Biblico, inaspettatamente, per una circostanza accidentale, mi sono trovato a non avere dove abitare. Arrivando da un altro continente, questa esperienza mi ha segnato a fuoco. Sulla scala che andava al primo piano, dove un sacerdote mi prestava la sua stanza per riposare un po’, ho capito in modo molto chiaro e forte che in questo incidente dovevo riconoscere il “volto dolente” del Figlio; l’incertezza e la sospensione, la forma di quel “paradosso dell’amore divino” (per dirla con la bella espressione della Novo millennio ineunte 25), che è Gesù abbandonato.

Ho ricordato nitidamente che per lui ero venuto, per lui avevo chiesto ed ottenuto dal vescovo il consenso per vivere in un “focolare” con altri sacerdoti mentre studiavo. La realtà mi ha subito fatto capire che, come sempre, mi prendeva in parola, e adesso mi chiamava a dimostrare la mia fiducia.

In seguito tutto si è risolto velocemente, però quell’esperienza mi aiutò a capire che il cammino d’unità ed anche di luce che mi aveva attratto fin lì, non avrebbe avuto un’altra Porta.

Così, con altri sacerdoti che studiavano altre discipline e con i quali condividevamo la spiritualità dell’unità, sono cominciati i primi passi, cercando di applicare nella nostra convivenza la concreta dinamica del saper “dare e ricevere” evangelico.

Le difficoltà ovviamente non mancavano, come in ogni rapporto. Nell’affrontarle, per molto tempo mi accompagnò una frase della Scrittura dove si promette il centuplo alla fedeltà: «Riusciranno tutte le sue opere» (Sal 1, 3). Allo stesso tempo era viva in me la coscienza che, se mi fossi ritirato di fronte alle difficoltà, negavo tutto: la coerenza personale, la responsabilità che avevo assunto davanti alla diocesi, quella scelta ideale di vita che avevo fatto già dal tempo del seminario e che volevo continuare ad approfondire.

Un episodio dei primi momenti degli studi sintetizza l’itinerario che ho percorso. A causa del caotico traffico romano, sono arrivato in aula quando la lezione inaugurale era già incominciata. Il decano mi vede e mi accompagna ai primi posti. Ad un certo punto, mentre c’era un momento di distensione, ho notato nelle mie mani i segni delle faccende domestiche (noi, infatti, facevamo anche tutti i lavori di casa). In quel momento ho colto la bellezza e l’importanza di poter coniugare il mio sforzo per raggiungere il livello di studio alto ed esigente dell’Istituto Biblico, con l’impegno di una vita di comunione che includeva tutti gli aspetti concreti della vita.

Ho preso coscienza che ciò, pur essendo una sfida ardua, costituiva una grazia per la mia formazione, non solo “professionale” ma anche cristiana e umana. Questo lavoro concreto non mi avrebbe permesso uno studio astratto, asettico, e quindi arido per me e per gli altri, ma incarnato nella vita. Tutta l’esperienza di quegli anni l’ha confermato. Dopotutto, niente di più logico; infatti è una “legge” tipicamente biblica, il nesso inscindibile che corre fra conoscenza e vita, tra fede e amore.

Tempo “perso”, tempo guadagnato

Ovviamente questa esperienza, se da una parte era più ricca, esigeva anche un plus di vigilanza, di sapienza nell’ordinare le cose, di disciplina nell’essere fedeli agli orari per proteggere il tempo necessario allo studio. È stata l’unità conquistata giorno per giorno tra noi che abitavamo in quella casa, che ci ha permesso di farlo. Non soltanto avevamo in comune i beni e condividevamo i risultati dei nostri studi come un dono per tutti, ma anche ci aiutavamo nei vari lavori arricchendoci reciprocamente.

Per non illudere, devo riaffermare che è stata la “sapienza di Dio” che è Gesù crocifisso (1Cor 1, 24) ciò che ci ha sostenuto e permesso di andare avanti. Tornare sempre a questa misura dell’amore ci permetteva di ricominciare quando sbagliavamo, oliando gli ingranaggi quando diventavano un po’ arrugginiti. Anzi, l’esperienza era che dopo ogni problema, quando si ristabiliva il rapporto d’amore reciproco, trovavamo che l’unità non era più quella di prima, era cresciuta e più bella. La grazia della vita del focolare è stata quella di custodire questa scelta di Gesù crocifisso ed abbandonato come centro della nostra vita, come chiave dell’unità. Sperimentare il suo potere era ciò che ci permetteva di convertirci sempre e continuare il nostro cammino.

Perdere in certe occasioni i propri gusti o priorità personali per privilegiare la vita d’unità, ogni volta che riuscivamo a farlo ci faceva percepire che era Gesù in mezzo a noi il vero Maestro.

Inoltre la comunione con gli altri sacerdoti della zona di Roma che seguivano la spiritualità dell’unità, è stata per noi un sostegno, un impulso sempre nuovo, fonte di gioia e di vita. Ricordarlo oggi mi fa sentire profondamente riconoscente verso tutti loro.

Il fatto di essere riuscito dopo anni di arduo lavoro, come ben sanno coloro che hanno studiato all’Istituto Biblico, a raggiungere il dottorato, mi si presenta come un frutto conquistato dall’unità con tutti questi sacerdoti.

La docenza

Adesso come professore di Antico Testamento in due grandi seminari della mia regione in Argentina, non faccio altro che cercare di portare a scoprire quella Sapienza nascosta nella Scrittura, che la luce del Risorto aiuta a mettere in evidenza.

Parafrasando l’affermazione di sant’Agostino ricordata dal Vaticano II (DV 16), direi che la capacità per rendere manifesta la verità del Vangelo latente nell’Antico Testamento, si trova nell’Amore rivelato dall’abbandono di Gesù, “mistero nel mistero” (NMI 25).

Quante volte con gli alunni abbiamo colto, per esempio, in Giobbe o nel Qoelet, una fede immensa in quei personaggi, che pur con meno ragioni storiche di quelli del Nuovo Testamento, abbracciavano dubbi e tensioni in un grido aperto verso l’immensità di Dio. E quante altre volte abbiamo compreso che sposare la Sapienza come Salomone (cf Sap 8, 2-9), significa riconoscere «la stoltezza di Dio più sapiente degli uomini, la debolezza di Dio più forte degli uomini» (1Cor 1, 25), perché sceglie ciò che non conta, ciò che è disprezzabile agli occhi umani, per farlo abitare nella sua intimità.

Con questo stesso atteggiamento sono andato ogni volta che mi hanno chiamato a parlare ai sacerdoti di diverse diocesi del mio Paese. Più volte, in corsi di aggiornamento biblico, mi sono meravigliato come rimanevano soddisfatti nello scoprire insieme questo mistero di Dio rivelato; lo stupore non veniva mai soltanto da qualche novità scientifica, ma piuttosto dalla conquista di quella luce che è frutto dell’amore reciproco e che ci fa innamorare della Scrittura.

Qualche mese fa, in una diocesi nel nord dell’Argentina, molto povera e con grandi divisioni a livello ecclesiale, dovute tra l’altro dal modo diverso di porsi davanti a questa povertà estrema, sono stato invitato dal vescovo a presentare al suo presbiterio, assieme al responsabile del Movimento dei focolari in quella regione, la spiritualità di comunione contenuta nella Novo millennio ineunte. Il tema, fondato biblicamente a partire dalla Pasqua ed esemplificato con esperienze, è stato ricevuto con gioia. Diversi sacerdoti rilevavano che avevano colto meglio la novità contenuta nella lettera papale, come luce per la loro vita e per la loro azione pastorale.

Recentemente sono stato invitato da un altro vescovo, nel contesto della formazione permanente del clero della sua diocesi. Desiderava che si trattasse il tema dei carismi nella Bibbia, completandolo ed illustrandolo con una presentazione ecclesiologica dei nuovi Movimenti ecclesiali. L’obiettivo esplicito del vescovo era di “porre il tema a livello del presbiterio”, e così è stato. In un clima aperto e di interscambio, abbiamo potuto condividere alcuni frutti degli studi della Scuola Abbà (di cui si parla in questo stesso numero nel tema svolto da Chiara Lubich), raccolti in tanti articoli apparsi nella rivista “Nuova Umanità”. L’incontro, profondo intellettualmente, è servito per aggiornarsi, per dialogare, per condividere esperienze che aprivano alla comunione.

Nella pastorale e nel seminario

In questi incontri mi guida sempre un’esperienza che, quando mi si offre l’occasione, comunico volentieri.

Quando ho dovuto lavorare da viceparroco nella cattedrale della mia diocesi, c’era un gruppo molto numeroso di persone del Rinnovamento Carismatico che non avevano un punto di riferimento ecclesiale. Loro mi hanno proposto che li guidassi ed ho accettato, confessando però la mia mancanza di conoscenza nei riguardi del carisma del loro Movimento.

Quando avevamo appena cominciato il cammino, sono venuti a trovarmi tre di loro, due uomini ed una donna, che m’impressionarono non soltanto per la loro povertà, ma soprattutto per la loro sincerità ed impegno. Dopo alcune parole mi hanno detto che, per poterli aiutare, avevo bisogno di una conversione, per cui mi domandavano se fossi disposto a partecipare ad un seminario di vita.

Io ero sacerdote, con tutti i miei studi e la mia esperienza, e inoltre ero l’incaricato della pastorale in cattedrale. Eppure, quella parola “conversione” mi è suonata giusta e vera. Capii che per partecipare della grazia particolare di un carisma, è necessario sempre da parte nostra un atto d’umiltà. Infatti quando avevo conosciuto il Movimento dei focolari, per me c’era stata, quasi senza rendermene conto, un’autentica conversione. Facendo quel seminario di vita a cui mi hanno invitato, ho potuto penetrare in un nuovo carisma, capendolo ed amandolo dal di dentro. Questa comunione disinteressata da parte mia è diventata immediatamente reciproca. Ho costatato ancora una volta che quella dinamica che ci svuota di noi stessi per accogliere il dono di Dio, venga da dove venga, arricchisce ed allarga la comunione di questa Chiesa pluriforme e bella che si va configurando nel terzo millennio.

L’anno scorso sono stato nominato rettore del seminario arcidiocesano. Nell’omelia alla Messa d’inaugurazione dell’anno accademico, l’arcivescovo mons. E. Karlic concludeva con il desiderio che «il seminario, a cominciare dallo stesso rettore, sia una comunità che si spiega soltanto a partire dalla Trinità e dalla Chiesa, che si spiega solo a partire da Maria (…). Il seminario quindi è ciò che deve essere, soltanto se esiste dalla Trinità, dalla Chiesa e da Maria».

Questo ideale di contribuire a far sì che la Chiesa sia “casa e scuola di comunione” (NMI 43), ha mosso tutti noi formatori a cercare di vivere la comunione prima di tutto fra di noi, per poterla poi irradiare. Avvertiamo che questa prospettiva fa della nostra vita, nell’alternarsi delle varie circostanze, una costante avventura d’amore.

 

Ramón Dus