I riflessi teologici di un’esperienza che rende più credibili ed attraenti le realtà cristiane

 

Teologia e vita: un binomio inscindibile

di Thomas Norris

 

L’autore, teologo irlandese, è professore di teologia dommatica all’Università Pontificia St. Patrick’s College a Maynooth. Inoltre è segretario del Comitato ecumenico delle Chiese cristiane irlandesi e, dal 1997, membro della Commissione Teologica Internazionale. Egli ci narra cosa ha significato per lui l’incontro col carisma dell’unità sia nello studio che nell’insegnamento della teologia.

Agli inizi di dicembre del 2000 si tenne un corso di ecumenismo presso il Focolare Center for Unity a Welwyn Garden City vicino a Londra. Il tema centrale era il documento dell’ARCIC (Anglican-Roman Catholic International Commission) sulla Chiesa come comunione (1991). I vari contributi erano stati preparati antecedentemente in un clima di profonda unità tra gli insegnanti. A me era stato affidato il tema “Dio come comunione”, nel quale ho cercato di mostrare come Cristo ci aveva portato sulla terra uno stile di vita modellato su quello delle tre Divine Persone.

Tra i presenti, che rappresentavano una gamma molto varia di comunità ecclesiali, ho trovato un grande consenso alla mia esposizione. Ricordo, ad esempio, l’impressione di una signora: «Avevo sempre pensato alla Trinità come a qualche cosa che consideravo fuori di me. Ora, di colpo, facevo un’esperienza della Trinità nella mia vita. Tutto è così semplice e così reale. Ho capito che non basta amare l’altro, ma che io devo permettere all’altro di amarmi a sua volta ed essere aperto per ricevere quest’amore. Solo così, infatti, l’amore diventa reciproco, viviamo “alla Trinità” e possiamo avere Gesù presente in mezzo a noi».

Questo tipo di approfondimento e di reazione è una delle molte sorprese che ho incontrato nella mia ricerca teologica, da quando ho scoperto la spiritualità dell’unità nel Movimento dei focolari.

Teologia e santità

Infatti, non è stato sempre così, perché quando ho iniziato a studiare teologia in preparazione al sacerdozio negli anni sessanta, già notavo un divario, quasi una separazione tra teologia e spiritualità. Più tardi ho letto la diagnosi fatta su questo argomento da von Balthasar. Egli in un celebre articolo dal titolo Teologia e santità ha fatto notare come in tutta la storia della teologia cattolica non è stato sufficientemente analizzato il fenomeno che, dopo il grande periodo della Scolastica, ci sono stati pochi teologi santi. E in un’altra sua opera ha descritto in termini forti il risultato di questa separazione: «Da una parte le ossa senza la carne, cioè la teologia tradizionale; dall’altra parte la carne senza le ossa, cioè tutta quella letteratura molto pia che presenta un misto di ascetismo, misticismo, spiritualità e retorica».

Anche all’interno della teologia stessa, così come allora si presentava, sembrava ci fosse un certo appiattimento del contenuto della fede. Non che ci fosse qualche cosa di non ortodosso nella presentazione della fede «trasmessa ai credenti una volta per tutte» (Gd 3), ma c’è stato senza dubbio un annacquamento di ciò che era essenziale, un’emarginazione involontaria di ciò che era genuinamente centrale.

La buona teologia ispira e richiede la buona vita: la teologia e la spiritualità sono scienze distinte ma non separate. Se sono separate, ambedue s’impoveriscono.

Teologia e vita trinitaria

Mi sentivo d’accordo con le valutazioni di Karl Rahner e ancora di Hans Urs von Balthasar, secondo i quali se la dottrina della Trinità fosse stata tolta dal credo, la fede, la preghiera e la vita dei cristiani comuni apparentemente non ne avrebbero subito alcun trauma. Il mistero fondamentale della fede non ha, dunque, niente a che fare con la vita quotidiana e con la comprensione profonda di Dio?

La novità assoluta del Nuovo Testamento non è, forse, la rivelazione della Trinità: Dio Padre che ci ha benedetti con il dono del suo Figlio e con l’invio dello Spirito Santo? Forse che per un Ireneo di Lione, ad esempio, questa rivelazione non aveva niente da suggerire nel plasmare la comunità cristiana? Ed è mai possibile credere che la realtà trinitaria non abbia niente da offrire ai problemi sociali, economici, politici, culturali del nostro e di tutti i tempi?

Questi pensieri mi affliggevano. Per generazioni noi candidati al sacerdozio abbiamo studiato due trattati sul mistero di Dio. Uno portava il titolo De Deo Uno e l’altro De Deo Trino.

Il primo era di carattere più filosofico e si concentrava principalmente sulle prove dell’esistenza di Dio e sugli attributi divini. Il secondo riguardava il mistero dell’unità e trinità di Dio e impiegava l’“analogia psicologica”, come era stata abbozzata da sant’Agostino ed elaborata da san Tommaso d’Aquino. Tale scelta dell’analogia intra-personale ha prodotto inevitabilmente una teologia della Trinità che non ha niente da dire alla completezza della nostra natura che è, essenzialmente, anche interpersonale e sociale.

Essa rischiava di generare, sul piano esistenziale, un ripiegamento su se stessi senza aiutare a creare rapporti veri con gli altri. Di conseguenza, il mistero della Trinità, il principale della nostra fede, in pratica non aiutava a vivere i più grandi comandamenti del Vangelo.

Per usare un’espressione di Pascal, il Dio dei filosofi aveva preso il posto del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo.

La novità del Concilio Vaticano II

Avevo iniziato i miei studi teologici mentre si svolgeva il Vaticano II. Nei testi leggevo ovunque la preoccupazione di mettere in luce il mistero del Dio unitrino come principio d’integrazione e d’ermeneutica per tutta la nostra fede. La Chiesa era un popolo fatto uno dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (cf LG 4). La Costituzione sulla Chiesa poneva in rilievo il fatto che «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo» (LG 9).

Infatti, tutto il caleidoscopio dei documenti del Concilio è impregnato del tema della comunione che costituisce il cuore della divina rivelazione, il disegno di Dio sull’umanità e la sua storia. È questa fondamentalmente la teologia che balza dalle pagine dei testi conciliari e che mi ha sempre affascinato.

Sapevo che questa dottrina si trova già in nuce nei Padri, i cui scritti costituiscono il “diario” della Chiesa giovane. Avevo letto in sant’Agostino: «In verità, tu vedi la Trinità, se vedi la carità», e anche: «Essi sono tre: l’amante, l’amato, e l’amore».

In un altro dei grandi padri, Gregorio Nazianzeno, – che conoscevo bene – avevo notato come il suo pensiero era tutto impregnato di questa stessa convinzione.

All’inizio degli anni settanta, iniziando a leggere John Henry Newman, ritenuto un “Padre della Chiesa del diciannovesimo secolo”, avevo notato che per lui la dottrina della Trinità non è proposta nella Scrittura come un mistero, ma piuttosto come forma della nostra vita con Dio e tra noi, perché ogni verità è finalizzata alla pratica.

Basterebbe sfogliare i volumi dei suoi Sermoni parrocchiali per ritrovarselo detto in mille modi e sfumature diverse: «La rivelazione non ci è stata data per soddisfare i nostri dubbi, ma per farci migliori».

Capivo anche che la fede cristiana doveva essere vigorosamente, anzi costitutivamente, comunitaria se voleva essere fedele alle sue credenziali rivelate, agl’insegnamenti patristici e ai testi autorevoli del Concilio. Ma dove si trovava una tale espressione di fede che si fa vita nel quotidiano?

Nei primi anni di sacerdozio l’ho cercata attorno a me, ma non l’ho trovata. Mi sono sforzato di individuare una via, una spiritualità per vivere il mistero della Chiesa come comunione della vita trinitaria sulla terra, che raccogliesse in uno i figli dispersi dell’umanità.

E il mio cercare è diventato sempre più ansioso nella misura in cui mi sono accorto che Gesù aveva elevato l’unità e la comunione allo status di principi essenziali per la fecondità pastorale: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35); «Padre, che siano uno come io e te, affinché il mondo creda» (cf Gv 17, 21. 23).

E allora un imperativo mi saltava fuori dalle pagine che studiavo: «O vivi così o non riuscirai a trovare quella pienezza che Dio vuole da te. E la Chiesa stessa attorno a te  non può fiorire!».

L’incontro con il carisma dell’unità

È stato in quel periodo che sono stato invitato ad un incontro del Movimento dei focolari. Era il 1974 e c’erano circa cento persone: anziani e giovani, sposati e vergini, sacerdoti e laici. Sapevo poco o niente del Movimento, se non quanto avevo udito da un amico sacerdote che ne aveva incontrato alcune persone quando studiava filosofia a Lovanio alla fine degli anni sessanta.

Questo incontro è stato per me una vera esperienza di Dio. In quell’occasione si sono impressi in me alcuni aspetti del mistero cristiano che suonavano come musica per il mio udito più intimo. Ho visto che era possibile superare il divario tra il pensare la fede e il viverla, perché dall’inizio alla fine di quei giorni indimenticabili il motto che ci è stato proposto come guida era: «Ama, affinché tu possa capire!». Qui ho visto realizzato il primato del “fare” sul “parlare”.

Ho riconosciuto un principio del Nuovo Testamento: anche Gesù ha iniziato prima a fare e soltanto dopo a insegnare (cf. At 1, 1). Egli ci aveva avvertiti che ad entrare nel Regno dei Cieli non sono quelli che professano la fede con la bocca, ma coloro che osservano le sue parole e le mettono in pratica (cf Mt 7, 21. 24-27).

Che cosa ci veniva chiesto di vivere in Mariapoli? Le parole di Gesù con semplicità, immediatezza, radicalità, sine glossa. In particolare quelle parole che sottolineavano il servizio concreto ad ogni prossimo, o meglio a Gesù in ogni prossimo. Infatti, non è egli presente nella Parola, nell’Eucaristia, negli altri Sacramenti, e poi ancora nel vescovo, nei poveri e nei sofferenti, e in mezzo a coloro che sono riuniti nel suo nome?

Ovviamente avevo sentito nominare tutte queste presenze nel corso dei miei studi teologici. I testi del Concilio Vaticano II le menzionano tutte. Ero attratto inoltre dal fatto che l’una o l’altra di queste presenze fossero state già vissute dai grandi amici di Cristo come, per esempio, san Francesco col suo amore per Madonna Povertà, che vedeva e serviva Gesù in ogni persona povera e specialmente in ogni situazione di sofferenza fino a ricevere nel suo corpo, due anni prima della morte, le stimmate del Crocifisso. E così tanti altri ancora.

In breve, in quell’incontro mi sembrava che teologia e santità finalmente si coniugavano. Me lo confermava un sacerdote gesuita, che in quell’occasione ci raccontò come il carisma di Chiara Lubich lo aveva aiutato a capire ancora meglio quello di sant’Ignazio, da lui trasmesso a tutti i suoi figli e all’intera Chiesa.

La luce di Gesù in mezzo

Per un attimo mi è venuto il dubbio che quelle persone fossero un po’ fuori del normale. Notavo però che a sera, quando andavo a letto, ero felice come non mai e restavo a pensare meravigliato a quanto avevo visto e udito e a chiedermi cosa mai mi fosse successo. E il giorno seguente l’avventura continuava: avevo il gusto di “vivere” e questo stile mi piaceva sempre di più. E i dubbi svanivano come la rugiada del mattino. L’atmosfera di luce non soltanto è continuata, ma si è approfondita e all’improvviso ho capito: Gesù è in mezzo a noi, perché siamo uniti nel suo nome ed è lui che c’illumina! Potevo dire anch’io che avevo “visto” e perciò avevo creduto.

Non solo, ma mi sono pure reso conto che tutte quelle persone, vivendo unite nell’amore evangelico e rendendo così possibile la presenza di Gesù in mezzo a loro, mi avevano ottenuto la grazia di una nuova comprensione della mia fede. Vivevano la reciprocità dell’amore, “perla del Vangelo”, come la chiama Giovanni Paolo II, ed io avevo goduto della luce che questo comportava, come è promesso dal Vangelo. Mi avevano fatto trovare Dio in una maniera nuova. Ora che avevo capito, mi sentivo fortemente attirato nella stessa avventura. Ormai avevo sperimentato che il vivere poteva precedere il parlare, e ciò è stato per me, teologo, una nuova e impegnativa meta.

Imparare a “fare teologia”

Ora vedevo la teologia in una luce diversa. Nel mondo irlandese e anglofono generalmente si parla di “fare la teologia”. La scoperta della via della vita mi ha suggerito un insieme di nuovi imperativi e categorie del pensiero teologico per quel “fare”. Ora non soltanto il metodo teologico stava per esserne influenzato, ma anche il contenuto doveva essere riveduto a fondo.

Come prima cosa, mi era evidente che vivere da uomo, da cristiano e da sacerdote era più importante di ciò che facevo da teologo. E qui mi venivano in mente le note parole di Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni» (EN 41; cf 75). Questo imperativo voleva dire che vivere il Vangelo era di primaria importanza. E ciò richiedeva un vivere in funzione dell’unità per generare la presenza di Gesù in mezzo alla comunità senza fermarsi neanche davanti al mistero della croce. Ho incominciato a rendermi conto che era proprio ciò che san Paolo intende quando dice: «Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2, 2), ed anche: «Noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 16), perché è Gesù crocifisso “la sapienza di Dio” (1Cor 1, 24; cf Col 2, 3).

Riflessi per il metodo          
nell’insegnamento

Di conseguenza, il rapporto con l’altro è diventato una preoccupazione centrale anche nel modo di insegnare. Era più importante vivere per Gesù negli studenti, pormi concretamente al loro servizio, che svolgere temi eccellenti di teologia senza questo rapporto. Erano essi i miei prossimi più immediati. Certamente la preoccupazione di servire Gesù in loro, attraverso l’insegnamento, mi ha fatto, quasi automaticamente, stare più attento a ciò che insegnavo e a come lo facevo, e quindi più attento ai loro interrogativi e alle loro necessità ed esigenze più profonde.

Capivo che bisognava cercare di insegnare come Gesù l’avrebbe fatto. In fondo è lui l’unico Maestro. Occorre permettergli di esserlo. Quando sono riuscito a creare con gli studenti questo tipo di rapporto, ho notato in loro quella «comprensione molto fruttuosa dei misteri della fede», che la Chiesa identifica come meta della teologia.

Inoltre potevo notare che gli studenti che s’impegnavano a vivere concretamente nel quotidiano una frase compiuta del Vangelo secondo la prassi del Movimento dei focolari, riuscivano ad acquistare un contatto più diretto con la persona di Gesù. Egli non appariva più come il fondatore, distante nei secoli, del cristianesimo, ma il Signore vivo e sempre presente, che ancora oggi insegna e corregge e mostra la via della vita. E, poiché la sua «Parola è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4, 12), le esperienze fatte con le sue “Parole di vita”  sono divenute meravigliosi strumenti pedagogici.

Spesso servivano ad illustrare i punti più difficili e sottili della dottrina e della teologia. Esse hanno anche fornito il giusto atteggiamento ermeneutico nei confronti della Scrittura, della Tradizione e dell’insegnamento della Chiesa.

Forse il riflesso più significativo di questo metodo è che tale partecipazione attiva degli alunni ha dato alle lezioni di teologia una vitalità e un’attrattiva che diversamente non sarei riuscito a dare. Era come se l’impegno a “vivere la Parola” trasformasse gli orecchi in occhi. Non per nulla giganti nella santità e nella teologia, come Riccardo da San Vittore e Tommaso d’Aquino, dicevano: «Ubi amor, ibi oculus»: è l’amore che fa vedere!

Una luce anche per i contenuti

Dal punto di vista dei contenuti, la luce della rivelazione del Nuovo Testamento, che ci presenta Dio come amore (cf 1Gv 4, 8. 16), gettava la sua luce su tutta la teologia. Poco dopo aver scoperto questa spiritualità, ebbi una conversazione – impressasi indelebilmente nella mia memoria – con un mio amico anch’egli teologo, Anton Weber. Egli mi confermava che bisognava “imprimere” in ogni area della teologia la realtà del mistero della Trinità. Con ciò voleva dire che solo Dio, che è Uno e Trino, è l’interprete divino di tutte le sue opere. Questa affermazione mi ha portato tante intuizioni.

Faccio qualche esempio. L’ecclesiologia del Vaticano I e II tratta dell’autorità del Papa e di tutto il collegio dei vescovi uniti al Papa. Chiara Lubich, nel suo libro Uomini a servizio di tutti, armonizza questo duplice soggetto alla luce dell’unità e trinità di Dio: «Anche il governo si può pensare concepito ad immagine di Dio Uno e Trino. Il Papa ha il supremo potere. E anche il Collegio ha il supremo potere… Il Papa ricorda il mistero dell’unità di Dio. Il Collegio, formato da una molteplicità di persone, ci ricorda per analogia la Trinità».

Nella teologia dell’Eucaristia, si riconosce che essa “fa la Chiesa” (Henri de Lubac), perché fa di molti un sol corpo (cf 1Cor 10, 17), e attira i molti all’interno del mistero del Dio Uno e Trino (cf Gv  6, 57).

Quando insegno il trattato sulla Divina Rivelazione e la sua trasmissione, è affascinante per gli studenti scoprire che l’autocomunicazione di Dio al mondo consiste soprattutto nel portare nella storia, attraverso il Figlio, l’amore pericoretico delle divine Persone, affinché diventi fin da adesso la nostra vita.

Nuovi “loci” teologici

Ma non era soltanto il metodo del mio insegnamento a dover cambiare vitalmente e non erano solo i contenuti a dover essere ricompresi; era tutto il mio “fare teologia” che doveva mutare. La teologia doveva avere, per così dire, dei nuovi loci. Essa prende le mosse dall’interno del Mistero di Cristo, «mediante il quale gli uomini per mezzo di lui, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura» (cf Ef 2, 18; 2Pt 1, 4) (DV 2). Quindi il “luogo teologico” per eccellenza è il seno del Padre. Infatti, «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1, 18).

Avevo studiato il metodo teologico del cardinale Newman. Avevo posto in rilievo che la sua intuizione è una guida per i teologi dei nostri tempi. Ora mi accorgevo che la rivelazione cristiana ci presenta un Teologo  che è il Padre, una Teologia che è il Verbo fatto carne nella storia, e una Guida che è lo Spirito Santo che ci «guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16, 13).

Era necessario, da parte nostra, fare spazio a questa Teologia. Ma come? Vivendo tra noi il patto dell’amore reciproco in modo che, essendo «riuniti nel suo nome» (cf Mt 18, 20), egli presente in mezzo a noi ci facesse diventare lui e ci illuminasse.

In questo modo anche la Mariologia veniva ad avere un posto centrale proprio come modello di colei che ha creduto, meditato e messo in pratica la Parola di Dio. Maria è la donna tutta rivestita della Parola al punto tale da diventare la Theotókos. Ella è l’icona di chiunque vuol ricevere la Parola di Dio e trasmetterla fedelmente con la vita, con l’insegnamento e con gli scritti.

Una settimana prima di morire il vescovo teologo Klaus Hemmerle diede un’intervista sull’esperienza di Dio in Chiara Lubich. Concluse il suo commovente racconto autobiografico con le seguenti parole, che faccio pienamente mie:

«È questa la cosa interessante: Chiara Lubich ci ha presi in una scuola di vita; questa scuola di vita è nello stesso tempo anche una scuola per la teologia. Il risultato non è tanto un miglioramento della teologia, quanto teologia vissuta che viene dall’origine della rivelazione».

 

Thomas Norris