Motivi di speranza nella crisi del mondo d’oggi

 

Per una visione sapienziale della cultura contemporanea

di Giuseppe M. Zanghì

 

In ogni epoca di grandi cambiamenti, come la nostra, è più facile vedere ciò che crolla che le nuove sintesi che ci attendono. In questa conversazione ai giovani, in forma sintetica e con un linguaggio a tutti accessibile, l’Autore, ispirandosi al carisma del Movimento dei focolari, offre sprazzi di luce e di sapienza per affrontare in modo costruttivo le crisi di fondo della storia che stiamo vivendo.

L’ateismo postmoderno

Oggi si parla molto di postmoderno, in genere come “crisi” del moderno, intendendo per moderno quell’epoca culturale che in Europa ha avuto inizio con l’Umanesimo e il Rinascimento ed ha posto al centro di tutto l’uomo come singolo nella sua alterità, spesso compresa come indipendenza da Dio. Mentre l’uomo medioevale era tutto in relazione con Dio, l’uomo moderno, rinascimentale, non rinnega Dio all’inizio ma si pone già di fronte a lui.

Il postmoderno può essere inteso anche come un’epoca culturale diversa con sue caratteristiche, delle quali però si riesce a dire assai poco.

È certo comunque – ed in questo gli studiosi sono tutti d’accordo –  che il nostro è tempo di crisi. È un tramonto di forme di vita con i valori ad esse legati. Per esempio, pensiamo al passaggio dalla cultura contadina, che era ancora dominante nell’Europa fino alla seconda guerra mondiale, alla cultura operaia che già cominciava nell’Ottocento ma divenne dominante solo allora. Poi, la cosiddetta cultura del terziario; e, quindi, la cultura dei “media”, dell’informazione, della virtualità.

È una successione di forme di vita che sono via via tramontate con i valori ad esse collegati. Tramonto soprattutto di riferimenti ad una Realtà assoluta: Dio, con un conseguente ateismo e teorico e pratico.

Bisogna, quindi, riconoscere con chiarezza questo tramonto: la cultura contemporanea, infatti, o fa a meno di Dio considerandolo “un’ipotesi che non serve” – come diceva Laplace a Napoleone – oppure lo considera un affare privato di chi crede. Pochi oggi nell’Occidente costruiscono esplicitamente la loro vita su Dio.

Questa crisi era già stata intravista, nel suo nascere, con grande lucidità da Dostoevskij nel suo libro I demoni, un testo fondamentale per capire che cosa ha vissuto l’Europa in questi ultimi anni. Ancor prima, però, tale crisi era stata avvertita da un politologo francese, Alexis De Tocqueville, che nel suo libro La democrazia in America, aveva colto il successivo dilagare dell’ateismo proprio nella struttura stessa di un certo modo di intendere e gestire la democrazia in quel Paese.

Ma che cos’è una crisi?

È il momento in cui passato e futuro si scontrano nel presente. È come il momento del crepuscolo mattutino, quando non è più notte e non è ancora giorno. Questo è tipico della cultura di oggi.

Crisi che supera sempre più le frontiere dell’Occidente per diventare crisi mondiale. Bisogna allora riflettere su questo per capire il perché della violenta reazione all’Occidente di tanta cultura non occidentale. Abbiamo l’esempio dell’Islam odierno. Si possono certamente contestare tanti suoi modi di fare, ma nel fondo c’è che esso si sente aggredito da una cultura – la nostra – che veicola delle crisi estranee alla sua cultura.

Si parla per questo di una vera notte oscura epocale. Lo diceva Paolo VI, lo diceva il Patriarca Athenagoras, l’ha detto Giovanni Paolo II, parlando proprio sulla tomba di san Giovanni della Croce in Spagna. Lo dice Maria Zambrano, una grande pensatrice spagnola morta da poco. Così essa scrive: «Siamo di fronte ad “una delle notti del mondo più buie che abbiamo mai visto”».

E ancora prima di questi, alle soglie della modernità, in maniera profetica così scriveva  F. Hölderlin, un grande e tormentato poeta del XVIII secolo: «Ma ahimè!, vaga nella notte, e come negli inferi senza divinità, vaga la nostra generazione».

Cos’è una “notte dello spirito”?

Essa è buio e silenzio di Dio. È smarrimento del senso essenziale della vita, naufragio dell’io e del cosmo in un non-senso tanto più tragico quanto più lo si vuole sostituire con il consumo. Un vuoto antropologico, di umanità dunque, e un vuoto cosmologico, di un universo spogliato di senso. E, prima ancora, e tragicamente, un vuoto di Dio.

Assenza di Dio

E non è questo che oggi si vive, se analizziamo attentamente la nostra cultura?

Alcuni, la maggioranza, cercano di colmare il vuoto con tante “cose”, cui spesso vendono la propria coscienza; altri, pochi, stanno di fronte all’abisso e si interrogano, dolenti. Ne cito tre.

Un grande poeta, Mario Luzi, scrive: «Densissimo silenzio / tra noi uomini e il cielo, / arido / per aridità di mente / o scomparsa degli angeli / rientrati nel Verbo, muti, / alla sorgente, / afasia, anche, / o morte dei profeti».

E così si duole e prega un altro poeta, ateo, A. Zinov’ev: «Ti supplico, mio Dio / cerca di esistere, almeno un poco, per me, / apri i tuoi occhi, ti supplico! / Non avrai da fare nient’altro che questo, / seguire ciò che succede: è ben poco! / Ma, o Signore, sforzati di vedere, te ne prego! / Vivere senza testimoni, quale inferno! / Per questo, forzando la mia voce, / io grido, io urlo: / Padre mio, / ti supplico e piango: / esisti!».

Da notare che prima parla di Dio, poi parla del Padre!

Così, ancora, si esprime un filosofo non credente, Norberto Bobbio: «Perché l’essere e non piuttosto il nulla? (…) E negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole (…). C’è in me un fondo religioso che mi assilla, mi agita, mi tormenta».

Pochi testi esprimono così bene questa realtà culturale dell’Occidente come questa  celebre pagina tratta da La gaia scienza (n. 125) di F. Nietzsche, il grande filosofo del nichilismo. Così egli scrive:

«Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?”, disse uno. “Si è perduto come un bambino?”, fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?”, gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo a sciogliere questa terra dal suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Lontano da ogni sole? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne anche al mattino?».

L’uomo della modernità è stato svuotato di se stesso, paradossalmente con il proposito di farlo se stesso, ma di fatto conducendolo all’alienazione. Penso che il postmoderno sia la presa di coscienza disincantata di questo esito della modernità. E se l’uomo moderno soffriva per questa crisi, l’uomo postmoderno ne prende atto in modo disincantato e come anestetizzato.

Come leggere quanto oggi accade?

La chiave è Gesù in croce che grida l’abbandono. Ed è importante questa chiave, altrimenti la cosa più ovvia e coerente sarebbe arrivare ad un pessimismo radicale. Egli è l’Uomo che ha toccato le radici più profonde e desolate della creaturalità, sino alldi Dio; egli è Dio, che ha raggiunto l’uomo nell’abisso privo di luce, ma per aprirlo e condurlo alla luce.

Per questo, di fronte a Gesù Abbandonato, il “negativo” è certamente negativo – non posso negare che il buio sia buio – ma è anche vero che è la “promessa” di una novità di vita – di una risurrezione – grande quanto è grande la crisi.

Noi ci poniamo di fronte a Lui, che ha fatto sue tutte le negatività. E in lui cerchiamo di leggere la crisi della cultura occidentale, per porne in evidenza sia l’aspetto notturno sia, e inseparabilmente, anche le promesse di novità che, se fecondate dal cristianesimo, avranno esiti inauditi. Perché nel buio Dio sta comunicando se stesso come Egli è in Sè alla creatura, al di là delle immagini che ce ne possiamo fare. È Lui che si comunica come Egli è; ma per fare questo, deve spazzar via tutte le immagini che ci siamo fatti di Lui e poter dire: «Io sono questo».

Accenniamo qui solo brevissimamente ad alcuni aspetti di questa crisi nel loro volto duplice: di “notte” e di “promessa di giorno”.

Il concetto di democrazia

Se esso ha dato origine certamente al “popolo sovrano” – che è una grande conquista dei tempi moderni –, lo ha però lasciato orfano di un vero capo: di quell’uno che può dare “senso politico” ai molti e che può fare del corpo sociale una realtà vitale. Da qui, lo sbriciolamento della realtà politica in mille interessi particolari, incapaci di giungere a progetti forti proprio per l’assenza di un uno che li raccolga e li trascenda nel bene comune. Questo è l’aspetto “notturno”.

Ma non dimentichiamo anche – è la promessa del nuovo – che la democrazia ha spogliato l’antico uno sociopolitico di quella sorta di sacralizzazione che lo poneva lontano e fuori dagli altri uomini, svuotando così la realtà del sociale di una reale consistenza perché il capo del sociale, l’uno, era “fuori” di esso. La democrazia ha restituito il sociale all’uomo aprendolo così, nella temporalità storica, a realizzazioni ricchissime.

Nelle culture antiche l’aspirazione dell’uomo per la propria realizzazione era tutta in verticale. Per esempio, nell’India la realizzazione dell’uomo, dopo che s’era formato una famiglia, dopo che aveva studiato e operato, era darsi alla ricerca di Dio nella solitudine. La democrazia moderna ha dato un futuro temporale all’uomo, la possibilità di uno sviluppo nel tempo, che è una cosa molto diversa.

È certo però che non si può fare a meno dell’Uno; ma l’Uno che si attende ora non può essere più una persona, un singolo: ricadremmo nella sacralizzazione del potere. Ma neppure un collettivo, sia esso un partito, un regime – collettivo che è sempre meno della realtà dei singoli che lo compongono. Il collettivo non ha mai il valore delle persone che lo compongono.

Quest’Uno dev’essere certo una persona, ma tale da farci noi stessi persona mentre ci assume e ci consuma in sé nell’Uno. Allora non può che essere la Persona del Verbo. Egli che, come dice Chiara Lubich, nel seno del Padre restituisce al Padre, essendo Egli per Sé niente per amore, gli infiniti toni della Parola amore (Dio dice amore in infiniti toni e siamo noi ognuno di quei toni, noi pensati da Dio). Ci restituisce al Padre tutti Lui, ma ciascuno se stesso. Questo che il Verbo fa nell’eternità della Trinità, lo fa incarnato nel mondo. Questo è Gesù in mezzo a noi, reso presente dal nostro amore reciproco. Allora non ho timore di affermare che la presenza di Gesù in mezzo alla comunità umana è la chiave per una compiuta democrazia.

Il valore del singolo

Pensiamo, ancora, allo sviluppo forte del senso dell’individualità, che però – non giungendo alla realtà della persona che, come Dio ci mostra, è amore, dono di sé – ha finito per alzare mura che allontanano l’altro, chiunque egli sia, come a me estraneo, spesso nemico.

Sartre, uno dei più grandi testimoni di questa notte oscura epocale, diceva: «L’altro per me è l’inferno». Mura all’interno delle quali l’io si consuma prigioniero e dalle quali cerca di evadere inutilmente in mille modi – possono essere la droga, il consumismo sfrenato, il sesso, la stessa violenza etc. Questo è “l’aspetto notturno”.

È vero però anche che questo individualismo ha messo in luce la preziosità insostituibile di ciascuno, come portatore di un disegno di Dio unico ed irripetibile. Il singolo nelle culture arcaiche, compresa quella greco-romana, non aveva valore. E invece qui il singolo è portatore di un valore, di un disegno di Dio. Occorre allora salvare l’individuo.

Ma come? Conducendolo fuori di sé nella Persona di Gesù, nella quale egli è fatto se stesso nel dono totale di sé e nella comunione con tutti gli altri individui.

San Paolo dice nella lettera ai Galati che «non c’è più giudeo né greco; non c’é più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). In greco il pronome che adopera Paolo non è il neutro en (una sola cosa), ma eis (una sola persona). Cioè, voi siete una sola persona in Gesù, la Sua! Allora, bisogna aprire l’individuo a capire che egli è persona in Gesù. È Gesù che mi personifica.

Ambiente ed ecologia

Pensiamo, ancora, allo smarrimento della realtà della natura: essa non è più sentita come l’interiorità infinitamente ricca di Dio esternamente comunicata. Dio è ricchezza infinita, quella ricchezza uno-molteplice che molta teologia ortodossa chiama la Sofia. Ora, la natura non è altro che la comunicazione ad extra di questa infinita ricchezza di Dio. È quel paradiso terrestre, che il peccato può compromettere ma non cancellare in noi. Quel paradiso terrestre il cui accesso ci è stato riaperto in Gesù, perché in Lui la natura ha ritrovato la sua immacolatezza. Certo, per superarlo e raggiungere poi il paradiso “celeste”, perché il Paradiso terrestre è un momento di passaggio per arrivare a quello celeste.

La natura, oggi, non è più il grembo vivente che genera e custodisce ogni uomo: quel luogo sicuro (e quanta insicurezza c’è oggi!) in cui affondano le radici di ciascuno di noi; quella terra-madre che custodisce tutti verso una destinazione sicura, sottratta all’arbitrio del singolo. La tecnica così come è usata sta violentando la natura, e con essa l’uomo, reso orfano delle sue radici.

Ma – ed ecco l’altro aspetto – non possiamo dimenticare le potenzialità plastiche della natura stessa aperte proprio dalla rivoluzione scientifica della modernità. La natura per l’uomo antico era uno scrigno chiuso; l’uomo moderno l’ha aperto e ne scopre ed elabora tutte le potenzialità. Potenzialità che, se rettamente usate, possono in qualche modo ridare alla terra – ed è quanto Gesù vuole – il volto del giardino dell’Eden, pur con tutta la precarietà dell’esistenza non ancora giunta alla sua piena maturità.

La maternità della natura potrebbe essere esaltata proprio dal sapere scientifico, se rettamente usato.

Gesù vuole che riabitiamo nel Paradiso terrestre, anche se in questa vita non mancheranno mai le tribolazioni. Ma ciò è possibile se abbiamo Gesù fra noi, amandoci veramente come egli ci ha amato e ci ama. È qui il segreto per portare nel mondo il profumo del paradiso terrestre, senza confonderlo col paradiso celeste, ma senza neppure cancellarlo.

La scienza

Pensiamo ancora alla frantumazione dei saperi in una molteplicità di linguaggi non comunicanti fra loro. Il filosofo e il fisico non si capiscono; all’interno della stessa filosofia, il metafisico e il filosofo analitico non si capiscono. In questa molteplicità di linguaggi l’uomo-uno naufraga. La malattia psichica è la dissociazione, è la frantumazione dell’uomo come uno. Se io presento all’uomo dei saperi dissociati, l’uomo sente in sé la dissociazione; ma non può non tendere disperatamente all’uno: da qui il malessere interiore.

L’uomo smarrisce se stesso nel labirinto delle forme che i vari saperi assumono.

Ma è anche vero che il sapere è cresciuto, si è aperto ed è maturato in molti saperi che ci consentono una conoscenza della realtà una volta impensabile.

Chi può fare, oggi, la sintesi dei saperi che una volta era affidata a delle intelligenze altissime?

Solo Gesù fra noi può fare la sintesi dei molti saperi in un nuovo sapere: quella Sapienza che è madre di tutte le conoscenze e punto di approdo di esse in una unità che mentre le fa se stesse, le apre alla verità tutta intera. Questa Sapienza è Gesù fra noi. Gesù in ciascuno di noi. I diversi Gesù nell’unico Gesù. E qui cito una frase di Chiara Lubich: «È Gesù che risolve tutti i problemi, ma non il Gesù storico, o lui in quanto capo del Corpo mistico adesso in Paradiso. Lo fa Gesù-noi, Gesù-io, Gesù-tu».

La libertà

Pensiamo, infine, al senso acuto della libertà (Pico della Mirandola), vista come la possibilità offerta all’uomo di farsi-ciò-che-vuole (Sartre). Da qui, il rigetto della nozione di “peccato”, inteso come negazione della libertà. Da qui, lo scontro terribile con il “reale”, che resiste alla mia libertà: il reale “naturale”, il reale “sociale”, il reale “Dio”. La libertà a questo punto implode nella distruzione dell’uomo.

Ma non possiamo non intravedere come, proprio nella libertà, si apre la scoperta di Dio amore e la scoperta dell’uomo come amore, perché i due non sono vissuti in opposizione ma in un essere l’uno nell’altro, superando quella “esternità” che corrode la libertà.

Ombre che richiamano la luce

Abbiamo accennato ad ombre e luci e abbiamo intravisto promesse di una luce grande. Per questo, quell’accadimento epocale che è la morte di Dio (e dell’uomo), visto nella luce di Gesù abbandonato e di Gesù risorto e in mezzo a noi, non termina in una fredda disperazione né, tanto meno, in una pseudo-esaltazione dell’uomo. Esso si apre su un’immensa speranza grande come la crisi.

Così scriveva nel 1919 un grande teologo ortodosso, S. Bulgakov: «Ammettiamo pure che l’essere spirituale della contemporaneità sia piagato da problemi e trasudi di dubbi, ma nel suo cuore non si esaurisce la fede, risplende la speranza. E forse questa complessità tormentosa nasconde una possibilità religiosa, forse ad essa è dovuto un compito particolare (…) e tutta la nostra problematica (…) non è che un’ombra gettata da Colui che viene».

L’alba della Pasqua segue alla notte del silenzio di Dio della nostra civiltà (cf. la lettera pastorale del card. Martini: “La Madonna del Sabato Santo”). L’incontro col Dio vivo segue la morte di Dio.

È già oggi l’alba della Pasqua?

Io dico di sì. All’orizzonte, al di là delle molte immagini che abbiamo potuto farcene, si presenta oggi Dio nel volto suo più vero: quello di Padre-amore infinito. E per questo si presenta la possibilità di un’immensa fraternità, di una società civile a livello mondiale e, più in là, di una società politica anch’essa a livello mondiale.

Occorre allora – ed è la sfida decisiva che la Chiesa sente oggi come sua ma non sempre sa come attuarla – occorre far incontrare il mondo in crisi con il Risorto e con la sua cultura.

Ora, i carismi che lo Spirito oggi suscita non sono gli angeli che annunciano che Gesù non è più nel sepolcro e ci spingono ad incontrarlo nelle vie del mondo?

In questo contesto anche il carisma dell’Opera di Maria, in un suo modo tutto particolare, ci porta al di là della crisi. Nella cultura che esso genera con la presenza di Cristo nella comunità, c’è già la cultura del futuro.

L’eschaton, infatti, non è più soltanto un orizzonte sempre lontano e sempre rimandato, né tanto meno un immaginario sognato nel profondo del cuore. Esso è in certa misura già qui presente, perché Gesù fra noi, il Risorto, è l’eschaton realizzato, qui ed ora. A condizione che il qui e l’ora siano vissuti nel seno del Padre! Nel luogo in cui egli ci ha introdotti. Questa è la condizione.

Questa unità nel grembo del Padre di singoli ciascuno Gesù e tutti l’unico Gesù, è già la cultura nuova, è il sole che si è levato. E più siamo questa realtà, più il sole – uso un’immagine di Chiara – è a mezzodì, alto e illuminante senza ombre.

Se siamo “una sola anima”, se siamo cioè Chiesa nel senso più autentico, siamo già nel cuore della luce. E la luce si irradia dai nostri cuori, fusi in uno, su tutte quante le cose che ci circondano immergendole nelle acque della Sapienza. Le tenebre, che ancora si addensano, e ci sono, si schiariranno nella misura del nostro saper irrigare tutte le realtà di questa luce.

Irradiarla con la bellezza della nostra vita, perché l’unità è bella; con l’amore dei nostri cuori; con la sapienza della nostra intelligenza.

Giuseppe Maria Zanghì