“La Chiesa nostra casa: non per rivendicarne un pezzo, ma per costruirla”

 

La Comunità di Sant’Egidio

 

di mons. Vincenzo Paglia

 

L’attuale vescovo di Terni, presenta in tratti brevi ma molto incisivi la storia e il metodo di evangelizzazione della Comunità di Sant’Egidio, da cui egli proviene.

Sono particolarmente lieto di poter condividere questo momento di fraternità e di comunione; un momento senza dubbio straordinario, che collocherei dentro l’esortazione del Papa a “prendere il largo” (NMI). Credo che anche questo sia un modo per attuarla. Anzi si potrebbe dire che qualche tratto di navigazione c’è già stato.

Quando Giovanni Paolo II, nella veglia di Pentecoste del 1998, sottolineava la nascita dei Movimenti come una nuova primavera della Chiesa, in fondo riconosceva che il duc in altum! era già iniziato, che una nuova stagione della comunicazione del Vangelo stava già sorgendo. Non mi fermo su quest’aspetto, ma credo che la vicenda dei Movimenti ecclesiali contemporanei vada letta all’interno di quest’orizzonte della nuova evangelizzazione già in atto.

Certo, anche per i Movimenti è necessario ascoltare il duc in altum!, perché il millennio appena iniziato ha bisogno di un amore più grande, di una solidarietà più ampia. E i Movimenti debbono sentire con ancora più urgenza questa chiamata. Il nuovo millennio non è un semplice passaggio temporale, ma una chiamata ad essere più generosi nell’amore, più audaci nella comunicazione del Vangelo. Ha ragione il Papa quando afferma che il programma c’è già. E lo dice anche a noi vescovi e sacerdoti, spesso ossessionati dai programmi e dai piani pastorali. No, il programma è il Vangelo, che deve essere riscoperto, ricompreso e annunciato, di generazione in generazione. E questa è un po’ la storia dei Movimenti contemporanei. Anche della Comunità di Sant’Egidio.

La nostra esperienza è un tentativo umile di scoprire qualcosa del messaggio cristiano in un tempo di transizione com’è il nostro. In tale contesto vorrei offrire qualche riflesso della vita della Comunità di sant’Egidio. Presenterei quattro quadri: il primo riguarda le origini, un secondo i poveri e Roma, un terzo la realtà di Sant’Egidio ed un quarto la sua incidenza nel mondo.

Le origini

La comunità muove i suoi primi passi nel 1968 ad opera di Andrea Riccardi.

L’avete conosciuto e ascoltato l’altro ieri. Era allora un giovane di 17 anni che viveva il clima particolare di quegli anni, segnato nel mondo giovanile da un atteggiamento di contestazione che conteneva una forte domanda di autenticità. Riporto le sue parole: «Per noi studenti di Roma, di un liceo, ragazzi di buona famiglia, la spinta contestatrice del ‘68 s’incontrò con un fatto importante: la scoperta del Vangelo. Direi che il Vangelo ci ha salvato dalle derive solamente distruttive del ‘68. Una domanda di autenticità che si è incontrata con il Vangelo. Come? Ho in mente i primi incontri, i primi passi, le prime esperienze e ricordo questo senso forte dell’incontro col Vangelo inteso come una parola autentica, non mistificata. Era la scoperta del Libro. L’incontro con il Vangelo è l’incontro anche con un mondo di cristiani, con la Chiesa che di tale Vangelo era portatrice. Devo dire che le istituzioni, le associazioni piuttosto convenzionali di quel momento erano come sullo sfondo: non ci interessavano troppo. Ciò che ci interessava e continua ad interessarci è la parola del Vangelo».

Era chiara una cosa: la spinta al cambiamento sarebbe stata valida se avesse affrontato il grande problema del cambiare se stessi, l’antico e sempre presente problema della conversione del cuore. Ebbene, il Vangelo, questo libro antico, ci sembrava che potesse cambiarci. La nostra fede è stata fidarci della Parola di Dio e cominciare a seguirla, magari comprendendo molto poco di quello che voleva dire vita cristiana, ma con una fiducia: «Sulla tua parola, Signore, getterò le reti».

Ancora Andrea: «Con semplicità, ma con convinzione, credevo: se cambiamo noi, potremo cambiare il mondo. Solo persone nuove potranno creare un mondo nuovo. Le istituzioni cattoliche mi sembravano lontane. Sentivo che bisognava fare qualcosa nel mondo del mio liceo, e così mettemmo in piedi un gruppo di liceali che cominciò a radunarsi proprio nei primi mesi del ‘68».

Sullo sfondo di questo inizio, non c’è solo il movimento del ‘68, c’è il Concilio Vaticano II. Il messaggio ai giovani diceva: «Noi vi esortiamo, giovani, ad allargare il vostro cuore alle dimensioni del mondo, ad ascoltare l’appello dei vostri fratelli, a mettere ardentemente le vostre energie al loro servizio».

Lo spirito del Concilio ci colpì, soprattutto nel senso che ci fece comprendere che nella Chiesa tutti erano a casa propria. Ma non una casa in cui rivendicare un pezzo, bensì una casa da costruire.

Allora, frequentando il mondo dei poveri di Roma e la periferia, ci rendemmo conto che la Chiesa era una realtà da costruire nel cuore della gente, perché la sentiva lontana, la percepiva come un ente assistenziale, non ascoltava in essa la Parola di Dio, spesso era muta nella vita di tante donne e di tanti uomini. Cambiare il proprio cuore alla luce del Vangelo, ma anche – allo stesso tempo – cominciare a costruire una comunità a scuola, nella periferia urbana, dove la Parola del Vangelo non risuonava molto. Sì, la gente conosceva la Chiesa, ma non il Vangelo.

L’incontro con il Vangelo ci ha salvato dal grande rischio dell’ideologizzazione diffuso nell’Italia e nell’Occidente di quei tempi. La Comunità di S. Egidio, tra i pochi meriti, ha quello di porre al centro della propria vita la Parola di Dio. Questo incontro con la Parola si è trasformato progressivamente in ascolto e in preghiera.

Una delle caratteristiche della Comunità di Sant’Egidio è la preghiera quotidiana comune della sera. Così a Roma: a Santa Maria in Trastevere, a Trinità dei Pellegrini, a San Bartolomeo, e in altri luoghi. Ma un po’ tutte le nostre comunità raccolgono la sera chi di noi può partecipare e gli amici: dall’Avana ad Anversa, da Maputo ad ogni angolo del pianeta dove esse sono presenti. È il filo rosso dell’ascolto quotidiano della Parola di Dio che ci ha accompagnato in questi anni da quelle prime riunioni nel ‘68 alla preghiera serale, a Roma e in altri luoghi del mondo.

Abbiamo progressivamente cominciato a maturare il senso che nella Chiesa più che attivisti o protagonisti bisogna essere discepoli. Se dovessi dire un tema su cui insistiamo molto è la teologia della discepolanza. Il cristiano è stato chiamato tale ad Antiochia, ma è nato discepolo in Galilea: è lì il nodo. In una comunità ormai adulta la dimensione del discepolato è fondamentale, ciascuno di noi è sempre discepolo ed ha sempre bisogno di ascoltare, perché la fede viene dall’ascolto. Questo ha rappresentato il motivo della continuità, della durata di Sant’Egidio, perché Sant’Egidio non ha voluto essere un’esperienza di socializzazione giovanile o di volontariato adulto (che non disprezzo), ma una comunità di donne e di uomini che si ritrovano in ascolto della Parola del Signore.

Vorrei dire che la preghiera è la prima opera della Comunità. Scrive Solov’iëv: «La fede senza le opere è morta, e la preghiera è la prima opera e il principio di ogni vera azione». È l’opera di tutta la vita: lo vediamo negli anziani, quando non possono fare più nulla, non possono aiutare, allora la preghiera resta quell’opera che nessuno può toglier loro. Il primo passo del discepolo – all’inizio e poi ogni giorno – è chiedere al Signore: fin dal primo incontro i discepoli cominciano a chiedere al Signore qualcosa e ad ascoltare quello che dice, magari senza capire molto. Tutte le nostre Comunità pregano con molta semplicità e fedeltà, anche all’inizio. Così si manifestano quello che sono veramente: non membri di una tribù cristiana o di quella di Sant’Egidio, ma discepoli.

I poveri e Roma

Fin dall’inizio i poveri sono stati i nostri compagni. Almeno abbiamo cercato di essere i loro amici. È un aspetto caratterizzante Sant’Egidio, che chiamerei, con le parole del Profeta, “l’alleanza tra gli umili e i poveri”.

La parabola del buon samaritano, con il suo invito a fermarsi presso l’uomo mezzo morto, lungo la strada tra Gerico e Gerusalemme, rappresenta una delle regole di fondo di ogni cristiano, e quindi anche nostra. I poveri erano allora i bambini delle baracche della periferia romana, poi sono diventati gli anziani, gli stranieri, i barboni, i malati di AIDS, i carcerati (specialmente in Africa), gli handicappati fisici e psichici.

Potrei farvi un elenco delle opere di Sant’Egidio, ma quel che più conta è l’amicizia con i poveri. Infatti, il rapporto con i poveri vuole essere caratterizzato da un’amicizia personale. L’amicizia è un tratto fondamentale per cui sentiamo che nel servizio ai poveri e nel rapporto con essi il problema non è solo l’aiuto, la solidarietà, ma è anche l’amicizia: è una contestazione muta ad un servizio ai poveri meramente funzionalista o assistenzialista. I poveri, quelli che conosco e seguo, sono miei amici, i miei parenti. Quando si realizza questa amicizia, si realizza un vero interscambio. Per questo, ogni comunità di Sant’Egidio, anche la più piccola, si caratterizza per la preghiera comune e per l’amicizia con i poveri.

La realtà della Comunità

Il terzo quadro: cosa vuol dire diventare una comunità durevole, stabile? La Comunità di Sant’Egidio ha voluto sempre essere una comunità di laici, di uomini e donne che fanno una vita come tutti: lavorano, si sposano, hanno i loro problemi, ma che nello stesso tempo sentono che la loro vita di cristiani è una “vita paradossale”, come si legge nella lettera a Diogneto.

Oggi siamo presenti in circa quaranta Paesi con comunità più o meno piccole, ma che vivono fino in fondo il rapporto con la Chiesa locale e con la città: l’essere comunità è essere come tutti nella Chiesa. Questo dà il gusto della collaborazione, del ritrovarsi con gli altri, del sentirsi cristiani come tutti, non migliori e nemmeno peggiori.

Nei primi anni abbiamo vissuto il senso di un’esperienza forte e calda, che tracciava frontiere. Ma l’ascolto del Vangelo e l’incontro con la gente han fatto maturare in noi un maggiore senso di amicizia.

Così dice Andrea: «Se ho un orgoglio, è quello di dire che Sant’Egidio non vuole vivere l’orgoglio della propria identità. Se c’è un aspetto che io considero immaturo dell’esperienza ecclesiale è il messianismo di gruppo, movimento o istituzione. Di Messia ce n’è uno solo ed è grande e basta. Ogni realtà ecclesiale rappresenta un fermento, una via, un aiuto, ma è una via e un aiuto non solo per quelli che vi appartengono, ma per tutta la Chiesa e ha un messaggio per tutta la Chiesa ed è un soggetto in più che arricchisce la famiglia ecclesiale.

La maturità di un’esperienza ecclesiale deve essere non sentirsi messianicamente unico, ma un carisma per la Chiesa. Ci sono molte dimore nella casa del Padre, grazie a Dio. La Chiesa “monolocale” non è mai esistita. Il nostro apporto con la grande Chiesa, con la Chiesa universale, non è passato attraverso soluzioni istituzionali – che poi abbiamo trovato come associazione pubblica della Chiesa avendo uno statuto – ma attraverso una scelta interiore».

Così, con il passare degli anni, abbiamo ricevuto il dono di essere un piccolo popolo, sparso e radicato in tante Chiese. Siamo nati come movimento di giovani, come una Comunità in cui si sa chi ci sta; ma oggi siamo una realtà di gente di tutte le età e con differenti livelli di partecipazione. A questa Comunità si sono uniti sacerdoti, religiose, religiosi che, pur non venendo dall’interno di essa, formano un’unica fraternità spirituale. Naturalmente questa fraternità non toglie nulla alla vita della Chiesa locale, anzi la arricchisce.

Così il Papa ha ripercorso la sua storia con noi: «Ricordo i tanti incontri con la Comunità agli inizi del mio episcopato alla Garbatella; nel dicembre 1978 m’imbattei in una vostra opera di carità e la visitai. Dopo quella prima volta spesso vi ho incontrati soprattutto nella periferia della diocesi, durante le visite, ma anche nella chiesa di Sant’Egidio, nella basilica di Santa Maria in Trastevere, a Castelgandolfo. E poi ho trovato in Italia, e in altre parti del mondo, la Comunità di Sant’Egidio. Ho avuto molte occasioni lungo questi anni di seguirvi e ascoltarvi: è stato per voi un periodo di crescita interiore e di sviluppo, dentro e fuori Roma. La vostra comunità nata nel ‘68 da un gruppo di studenti è cresciuta in questa Chiesa di Roma che presiede nella carità. Vi siete quindi sviluppati altrove inserendovi nelle Chiese locali, ma avete sempre avuto un senso spiccato della vostra romanità, perché dove ci sono le comunità di Sant’Egidio, anche non a Roma, sono sempre di Roma. La Comunità di Sant’Egidio ha vissuto lo spirito di Roma nel mondo…».

La nostra Comunità ha una sua storia e una sua geografia, ma allo stesso tempo si sente una piccola Comunità senza confini, aperta ad avventure spirituali e a legami anche in maniera inedita e senza tenere le distanze.

Il mondo:
pace e dialogo interreligioso

Molte altre cose avrei da dire, anche se la nostra esperienza è modesta. Ricompongo ogni cosa in un ultimo quadro: il mondo. Negli ultimi tempi si è parlato di Sant’Egidio a proposito delle iniziative di pace.

Il 4 ottobre del 1992 venne firmato l’accordo di pace tra il governo mozambicano e la guerriglia, ponendo fine a una guerra dimenticata, che in 15 anni aveva fatto un milione e mezzo di morti. Le trattative erano iniziate un po’ da “amatori”. Il giornale Le Monde le definì così, irridendole. Invece alla fine gli accordi sono durati. Ad essi hanno partecipato Italia, Francia, Stati Uniti e ONU, che poi ha continuato a verificare in Mozambico l’applicazione di quanto firmato a Roma. Durante questi ultimi anni in questo Paese africano la gente non è più morta per la guerra.

Quando si firmarono quegli accordi, una giornalista del Washington Post chiese ad Andrea: «Voi quando avete lasciato l’assistenza ai poveri per lanciarvi nella diplomazia?».

Non aveva capito che il lavoro per la pace non era diverso dal lavoro per i poveri, perché la guerra è la madre di tutte le povertà. Il discorso dell’impegno per la pace non fonda un Sant’Egidio “diplomatico”, che è forse uno degli aspetti più noti sulla stampa. Il lavoro per la pace è cominciato facendo cooperazione con il Mozambico, uno dei Paesi più poveri dell’Africa, scoprendo come la cooperazione era bloccata dalla guerra, causa principale della povertà. Abbiamo intuito che i cristiani, oltre agli appelli e alle marce per la pace, oltre a un’educazione alla pace, possono anche lavorare per la pace. Naturalmente senza avere gli strumenti diplomatici, di pressione, i soldi che hanno gli Stati. I cristiani hanno una loro forza di pace, che non si sostituisce a quella degli Stati, anzi che è caratterizzata proprio da una debolezza. Soprattutto in questo mondo, dopo 1’89, tutti possono lavorare per la pace. Oggi tutti possono fare la guerra, però è anche vero che tutti possono fare di più per la pace.

Noi cristiani di questo nuovo secolo abbiamo il tema della pace sempre più all’ordine del giorno nella vita delle nostre comunità. Non solo i cristiani, ma la gente di tutte le religioni. Questo è chiaro fin da Assisi dell’86, quando Giovanni Paolo II invitò i leaders religiosi del mondo a pregare l’uno accanto all’altro per la pace.

Ci siamo resi conto che la preghiera libera energie profonde di pace. L’incontro di persone religiose libera dalla grande tentazione che spesso i loro leaders hanno – tutti i leaders, ma in particolare cristiani, ebrei e musulmani – di rimanere intrappolati nel propri orizzonti etnici e nazionali. Nazionalismo ed etnocentrismo costituiscono la grande malattia che tocca tutte le culture anche religiose. In questo senso noi abbiamo sentito di dover continuare, anno dopo anno, la preghiera di Assisi come un grande impegno. L’immagine di Assisi è un’intuizione profetica in questo tempo in cui persone di religione diversa vivono insieme.

La coabitazione tra gente diversa etnicamente e religiosamente è la grande sfida del prossimo secolo. È una realtà del mondo, anche contraddittoria se si guarda a Sarajevo, al Libano, a Gerusalemme, all’Indonesia o alle grandi città occidentali ormai multietniche.

Il dialogo interreligioso vuol dare senso alla convivenza, vuol andare al di là delle identità precostituite, e vuol essere un parlare al cuore e trovare motivi profondi per vivere insieme. Il dialogo interreligioso ha conosciuto una grande fase di entusiasmo dopo il Concilio, ma anche successivamente una stagione di delusione. Le grandi religioni mondiali, infatti, non sono tutte sincroniche. Pensiamo all’Islam che ha vissuto, soprattutto negli anni ‘80, una fase di ripresa dell’orgoglio di se stesso, coincisa con un suo rifiorire. Così anche per l’Ebraismo.

Il dialogo richiede una pazienza geologica: non bastano anni, perché non si tratta di diplomazia, ma di cambiamento di mentalità.

Il dialogo è un’educazione a comprendere l’altro senza perdere te stesso. Il dialogo non indebolisce, ma ti rende più consapevole della tua originalità, identità, vocazione. Chi, per difendere la propria identità e la propria fede, ha paura del dialogo, nasconde una debolezza.

Lo spirito di Assisi non è una richiesta sincretistica, di unificazione: le differenze vanno rispettate, ma il dialogo deve continuare. Il dialogo è come l’amore: non punta a convincere o ad avere dei risultati immediati, altrimenti amerei solo i miei amici e non i miei nemici. Il dialogo è una vita offerta, nella forza delle proprie ragioni ma anche nella volontà di comprendere. In questo senso credo dobbiamo continuare il dialogo interreligioso e le difficoltà non ci devono spaventare.

 

Mons. Vincenzo Paglia