Chiamati a vivere la divina avventura del mistero pasquale per il bene dell'umanità

 

La vita sacerdotale tra angoscia e meraviglia

 

del card. James Francis Stafford

 

Durante la celebrazione eucaristica del secondo giorno del Convegno il presidente del Pontificio Consiglio per i laici, ha rivolto ai presenti questa omelia con spunti originali e stimolanti. Alla fine, aprendo il suo cuore con semplicità e trasparenza, ha offerto la sua personale esperienza.

La vocazione di Abramo

Le letture liturgiche degli ultimi giorni, tratte dal libro della Genesi, parlano di Dio creatore che innanzi tutto è stato riconosciuto come colui che ha chiamato il mondo alla vita. Adesso ci viene descritto come colui che effettua un’altra chiamata, in cui pronuncia la sua parola redentrice. Questa chiamata è stata rivolta a due persone ben precise: Abramo e Sara, che era sterile. Mediante la vocazione di Abramo si è formato un nuovo popolo, il popolo eletto di Israele. Abramo fu scelto da Dio per essere il padre di questo popolo e da quella chiamata in poi la sua vita fu completamente cambiata. Tuttavia la chiamata a lasciare Ur dei Caldei non significava che Abramo dovesse vivere per conto suo, ma che avrebbe dovuto abitare là dove dimora Dio.

Ecco come tutto è cominciato: «Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò». E Abramo superò tale prova. Poi gli fu detto: «Alla tua discendenza io darò questo Paese». Ma l’unica cosa che Abramo acquisì in quella terra fu un sepolcro, come primo insediamento.

La prima lettura di oggi sottolinea ancora una volta l’assoluta, cieca obbedienza di Abramo. Tratta infatti della stipulazione dell’alleanza. Dio passa sotto silenzio la domanda angosciata e diffidente sollevata da un Abramo privo di figli circa il compimento della promessa: «Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Anzi, dopo il suo atto unilaterale nel patto sacrificale, Dio fa calare un torpore su Abramo, che cade in un sonno agitato.

Anche altrove troviamo lo stesso schema: nella prima storia di Agar, nella fertilità di Sara, la sterile, e nel sacrificio di Isacco. In ognuno di questi episodi, la totale adesione di Abramo a Dio viene messa a durissima prova. Il sacrifico di Isacco in particolare sembra distruggere l’intera promessa del Signore nel suoi confronti, nonché il compimento della medesima, che cominciava a realizzarsi.

La scelta che Dio fa del proprio popolo mediante la chiamata di Abramo e la sua obbediente risposta viene ripetuta in due successivi avvenimenti: dapprima con Mosè e poi con il ritorno degli Ebrei dall’Assiria e da Babilonia. Il fatto decisivo in tutti e tre questi avvenimenti è che ad Israele non fu mai concesso di dimorare nella sua patria, né gli fu mai possibile. In patria o all’estero, Abramo, come il popolo da lui fondato, ha vissuto come straniero in rapporto a se stesso. Israele, insieme al suo padre fondatore, è sempre esistito nello stato di essere espropriato, di essere strappato da se stesso. Quindi Israele nel suo insieme era uno straniero nei confronti di Dio e un residente straniero di Dio.

In un’esperienza ancora più profonda dell’espulsione di Israele, si colloca quello strano atto di trascendenza che Paolo descrive come trascendenza di fede. Nella lettera agli Ebrei (11, 8) loda così il salto spirituale di Abramo: «Per fede Abramo... obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità». Israele ha vissuto nell’ambito di un patto offerto e iniziato da Dio. Durante la stipulazione di quell’antica alleanza, Dio passa accanto ad Abramo in un silenzio totale.

La fede di Abramo e la nostra fede
nell’Assente-Risorto

Siamo tutti progenie spirituale di Abramo e del suo patto. La nostra vita di battezzati nella morte di Cristo Gesù sarà segnata dalla presenza inesplicabile dell’Assente. Dalla risurrezione di Cristo si è creato uno iato tra passato e futuro. E noi annunciamo il passato e il futuro di Gesù. Quando proclamiamo questo mistero, la sua gloria riempie il presente. Qui sta la fonte delle tensioni proprie dei battezzati, perché la loro forma interiore è il mistero pasquale, la forma originaria della Chiesa.

Come Abramo, nostro padre nella fede, tutti noi battezzati veniamo strappati in modo definitivo da quanto era nostro. Questo vale per ciascuno di noi. La nostra gloria non sta in noi stessi, ma nel mistero pasquale cui partecipiamo in quanto battezzati in Cristo Gesù. E questo mistero è umanamente inesplicabile, è paradossale. Nel proclamare un evento passato e una speranza futura, noi riconosciamo che il presente è opera e auto-attestazione di Colui che Gesù ha chiamato il Consolatore. Pietro così descrive la nostra gioia per la presenza dell’Assente: «Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa» (1Pt 1, 8).

Nell’obbedienza della fede battesimale, rispondiamo allo Spirito che ci sta chiamando. La morte di Gesù, l’Assente cui si rende testimonianza, appare precisamente nell’obbedienza della nostra fede, fede che sarà uno svuotarsi imitativo che durerà tutta la vita. Il nostro modello è Gesù. Mediante il Battesimo portiamo «sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4, 10). La nostra quotidiana obbedienza nella fede manifesta e svela di nuovo la morte di Gesù.

La gloria di Dio in noi

La gloria di Dio diventa accessibile all’oscurità circostante solo alla «luce della conoscenza della gloria divina». Ora questa gloria viene manifestata agli altri «nella nostra carne mortale» (2Cor 4, 11). L’obbedienza alle nostre promesse battesimali riflette la gloria del Padre che rifulge nel volto di Cristo. Certo, noi non siamo altro che vasi di creta. Ma mediante la nostra obbedienza portiamo la gloria di Dio. Perché l’identità e la missione della Parola di Dio fatta carne sono rivelate nell’obbedienza di Gesù. Ha detto infatti: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4, 34). Qualunque cosa venga scoperta nel volto di Colui che «è stato crocefisso in debolezza» si nasconde nuovamente nella nostra obbedienza per venire svelato mediante la nostra debolezza.

La nostra debolezza non è nostra: è la debolezza di Cristo. Con San Paolo ognuno di noi – sia gli sposati che quanti osservano la santa verginità o la perfetta continenza –  può dire all’altro, in famiglia o in comunità: «Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2Cor 4, 12). Dio non mette alla prova la nostra forza, ma la nostra debolezza. La nostra debolezza in obbedienza all’amore di Cristo significa che noi scopriamo innanzi tutto la nostra miseria e la nostra inutilità.

Il disagio non è un’esperienza estranea al battezzato. Inquietudine e disagio non ci saranno pertanto estranei, perché siamo battezzati affinché nel sacrificio eucaristico tutte le nostre opere siano «piissimamente offerte al Padre insieme con l’oblazione del Corpo del Signore» (LG, 34).

L’Eucaristia è la rottura tra passato e futuro. Noi incarniamo la morte di Cristo soprattutto allorché professiamo il mistero della fede: «Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta». La proclamazione eucaristica per la potenza dello Spirito è la nostra preghiera più profonda.

Trasformare la morte in vita

Il Vangelo odierno sugli alberi che portano molto frutto mi rammenta un’altra parabola che illustra bene quanto ho appena detto: la parabola del chicco di grano (Gv 12, 24). Il seme dà la vita mediante la sua morte, da cui spunta il fiore che dà la vita e il frutto che la nutre.

Fin dai primordi i cristiani hanno visto la creazione del seme di frumento e della spiga di grano come un segno straordinario che rimanda al pieno, definitivo, unico e universale mistero salvifico di Gesù Cristo. La sua vita, in cui si è fatto obbediente mediante un totale abbandono di sé, è il sigillo trinitario apposto su tutta la creazione. Non è troppo ardito credere che il chicco di grano esiste solo perché il Figlio di Dio ha voluto che dall’eternità fosse il segno singolare della morte del Figlio dell’Uomo. Per Gesù la parabola del chicco di grano è destinata a noi, che siamo stati battezzati nella sua morte.

Riassumendo, essere battezzati significa essere buttati fuori, privati di qualsiasi riparo. È un’esperienza radicale e inattesa, o almeno così è stata per me. La mia esperienza di fede come vescovo è stata una somma di meraviglia e di angoscia. L’angoscia proviene dal fatto che il vescovo sa di essere parte dell’onta generale propria di tutto un universo che ha mancato. Anch’egli è stato consegnato alle tenebre. Nella speranza della redenzione il vescovo vive nascosto in Cristo per il bene dei peccatori e al loro posto. E la meraviglia? La meraviglia sorge nel vescovo dal fatto di tenere sempre le braccia spalancate e di sapere che la sua angoscia è diventata tutt’uno con l’angoscia del Crocefisso. La vita del vescovo e del sacerdote è predestinata, infatti, a non fare altro che vivere il mistero pasquale per il bene dell’umanità.

 

Card James Francis Stafford