Alcune riflessioni sull’avventura culturale dell’Occidente

 

Il Dio dell’uomo contemporaneo

di Giuseppe Maria Zanghì

Secondo l’autore la realtà rivelata nel grido dell’abbandono di Cristo sulla croce si impone sempre di più oggi all’attenzione teologica, e in un modo o nell’altro, filosofica, soprattutto “laica”. Questo perché nella luce abissale di questo abbandono si trova la risposta più alta alla notte epocale vissuta oggi da gran parte dell’umanità nei riguardi di Dio.

Il grido dell’abbandono è andato acquistando e acquista oggi un ruolo sempre più preponderante nella cultura dell’Occidente. Si pensi, per un esempio, al venerdì santo speculativo di Hegel; alla kenosi del Logos come punto centrale e conclusivo del pensiero di Schelling; si pensi allo spasimo di Nietzsche nell’annunciare la morte di Dio. E dopo di lui, ecco l’angoscia che travaglia la riflessione di un Heidegger e di un Sartre. E l’inoltrarsi coraggioso in sentieri ardui, come in Pareyson e in Cacciari. È stato detto: «Nel grido dell’abbandono la realtà di Dio è tenuta ferma per tutti i tempi, anche per quelli nei quali né esperienza né pensiero potrebbero affermarlo». A ragione Chiara Lubich ha voluto vedere in Gesù abbandonato il Dio dell’uomo contemporaneo!

Certo, da un punto di vista teoretico, gli errori oggi sono tanti e grandi. Si realizza troppo spesso una secolarizzazione della croce, tipica di una certa cultura illuministico-liberale. E forse il comunismo altro non è stato se non la secolarizzazione della risurrezione. Proposte insieme terribili nei loro esiti storici ma, anche, coinvolgenti nel loro dolore e nelle loro attese.

Oggi l’angoscia intellettuale è forse più ridotta o meno evidente. Ma continua a crescere l’angoscia esistenziale in quell’esito di massa del nichilismo teoretico che è la società dei consumi e dei media, dove si chiudono gli spazi per una vera risurrezione: rimane una società come scontro delle individualità bloccate nel loro diventare persone e senza altre regole di incontro che non siano quelle dettate dagli egoismi delle individualità medesime.

Non possiamo non chiederci, a questo punto: perché questa terra, l’Occidente, terra che ha elaborato una grande cultura cristiana, conosce oggi uno sbocco culturale così duramente ateo? Caso veramente unico fra le altre culture, che conoscono certamente al loro interno fenomeni di ateismo, ma non si danno come culture atee nella loro globalità.

La notte oscura
della cultura occidentale

Un suggerimento autorevole viene da Giovanni Paolo II, con parole che rimandano al mistero di Gesù Abbandonato. In un’omelia tenuta a Segovia il 4 novembre 1982, sulla tomba di San Giovanni della Croce, egli ha suggerito la possibilità di pensare ad una vera notte oscura spirituale non solo dei singoli ma epocale, di una intera cultura: la grande crisi dell’Occidente come la notte oscura di una intera cultura.

Vorrei citare qui testualmente alcune parole del grande esegeta H. Schürmann, che a mio parere sono ispirate dall’Ideale dell’unità, che egli conosceva. «Non c’è soltanto l’abbandono di Gesù sulla croce dove incontriamo l’oscurità di Dio; questa oscurità può anche avvolgere epoche intere della storia della Chiesa; non c’è comunque dubbio che questa è, in larga misura, la situazione della Chiesa oggi, delle nostre comunità e di molti credenti che vivono nella notte dei sensi e dello spirito».

Se leggiamo così la crisi dell’Occidente essa ci appare come il grido di Gesù abbandonato, mistero di desolazione e di morte, ma anche di amore e di attesa di risurrezione. Non siamo più, lo ripeto, soltanto di fronte all’abbuiarsi di Dio nello spirito del singolo perché questi sia purificato e fatto capace di contenerlo nella sua gloria proprio attraverso l’esperienza dolorosa della sua assenza. Oggi siamo di fronte all’abbuiarsi di Dio nel “collettivo” dell’umanità occidentale: ma anche in questo caso, nella nostra chiave di lettura, perché la cultura di essa sia purificata e fatta capace di contenere e dire Dio nella pienezza della sua gloria, passando attraverso il buio della sua assenza.

La notte oscura epocale dell’Occidente è il frutto dell’esser venuto meno di una unità culturale-religiosa all’interno della quale la notte dello spirito del singolo poteva essere sentita e vissuta come accadimento religioso. Questa unità si è frantumata nella solitudine dei singoli, solitudine nella quale la notte spirituale non è più percepita come tale, ma come assenza di un volto che però non rimanda più a un volto svelato, Dio in se stesso. È il vuoto di Dio.

Ma se è così, la crisi potrà risolversi solo in un nuovo ricomporsi dei singoli nell’unità; a condizione che questo ricomporsi sia nuovo, tutto evangelico – un nuovo “essere collettivo” grazie alla presenza vissuta di Dio all’interno non solo dei singoli ma del rapporto stesso dei singoli fra loro.

In questa luce che scaturisce dal vedere nella crisi dell’Occidente il volto di Gesù abbandonato, possiamo aprirci ad una grande speranza. Nella sua lettera enciclica Ut unum sint, Giovanni Paolo II scriveva in riferimento all’ecumenismo: «Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni» (n. 38). Mi permetto di dilatare queste parole anche in riferimento alle culture cosiddette “laiche”, in una sorta di ecumenismo culturale che ha la sua misura immisurata nell’abbandono di Cristo sulla croce. Seguendo Maria nell’accettazione d’amore della sua desolazione, si tratta di generare una cultura nuova, quella dell’Abbandonato-Risorto in mezzo a noi. La cultura di Gesù in mezzo a noi.

Penso che dal nichilismo superato grazie alla luce che scaturisce dall’abbandono, possa emergere una nuova cristianità: purché non la pensiamo secondo i modelli consumati dalla storia ma secondo la capacità di invenzione dello Spirito Santo. Hanno una forte saggezza profetica le parole del cardinale J. Ratzinger nella Premessa all’edizione italiana del 1991 del suo San Bonaventura, la teologia della storia (l’edizione originale tedesca è del 1959): «Il problema se sia possibile per un cristiano concepire una sorta di compimento all’interno delle vicende di questo mondo, se sia possibile cioè una specie di utopia cristiana, una sintesi di utopia e di escatologia, può forse addirittura essere considerata la chiave teologica del dibattito sulla teologia della liberazione» (p. 8).

La teologia e Gesù abbandonato

L’accadimento dell’abbandono ha sempre messo in imbarazzo le generazioni cristiane chiamate a ripensare, alla luce del mistero della croce, l’idea di Dio ereditata dalle culture precedenti. Ciascuna epoca cristiana ha affrontato il mistero del Dio rivelato secondo un’angolazione sua propria, nella quale ogni volta si apriva un varco di luce: ma la realtà dell’abbandono nella sua profondità ontologica è rimasta non raggiunta e, spesso, neppure pensata. Solo alcuni grandi mistici non hanno temuto di accostare le loro massime prove all’abbandono di Gesù, per trovare in esso significato e luce per la loro realtà di uomini e donne.

Dobbiamo dire, però, che negli ultimi anni la teologia ha cominciato a spingersi con più coraggio nella piaga interiore che tocca l’essere stesso del Verbo incarnato, quella piaga aperta dal grido dell’abbandono e offerta all’intelligenza umana, nella quale a sua volta apre una piaga.

Così han cominciato a muoversi le teologie cattolica, ortodossa, evangeliche, spinte anche dalla domanda della cultura a noi contemporanea, che è alla ricerca, nonostante apparenze contrarie, di un Dio più vicino, di un Dio fattosi veramente uomo, del quale Gesù abbandonato è l’immagine insuperabile.

In Gesù abbandonato ci viene rivelato Dio che, per offrire all’umanità la salvezza e il compimento del suo essere, la raggiunge proprio nella massima lontananza da Dio. Gesù abbandonato raggiunge il peccato nella sua radice, facendosi egli stesso, Dio, lontananza di sé a sé. È qui il miracolo: il niente di cui il peccato infetta la creazione è rovesciato nel Nulla d’amore che è il Dio rivelato da Gesù abbandonato.

Infatti, è in Gesù abbandonato che l’amore rivela la sua mirabile ontologia: avendo tutto dato per amore, il Figlio tutto riceve dal Padre nella Pasqua della risurrezione. Riceve se stesso uomo alla destra di Dio, e con sé e in sé i suoi fratelli e sorelle fatti Dio.

Ma c’è più ancora. Si incomincia a vedere Gesù abbandonato come la rivelazione compiuta della profondità di Dio e, di rimbalzo, della profondità dell’uomo. L’avvenimento della croce, nel suo culmine che è l’abbandono, è sempre più interiorizzato nella Vita intra-trinitaria, come l’avvenimento rivelatore che apre l’intimità nella quale Dio è Dio.

 Ed è sempre più interiorizzato nei rapporti inter-umani, nei quali l’uomo, immagine del Dio-Trinità, è compiutamente uomo.

Qui accenno ad una riflessione particolare, tutta da esplorare, ma sulla quale il pensiero di Chiara Lubich su Gesù crocifisso getta una luce abbagliante e di una stupenda modernità.

Nell’abbandono, il Figlio di Dio, che è Dio e dunque Persona trinitaria, portando all’estremo il movimento iniziato con l’incarnazione, fa l’esperienza della cruda individualità umana. La Persona divina, nella sua umanità, è come nell’ombra, mentre viene da lei sperimentata in tutta la forza devastante la solitudine dell’individuo, la sua chiusura su se stesso, la separazione, l’incompiutezza del frammento: in una parola, tutto ciò che non è persona, se la persona è, come ci rivela la Trinità, relazione d’amore.

Ma facendo sua la realtà dell’individuo, patendola per amore, il Verbo-Dio la apre a diventare in sé persona, cioè: amore nella reciprocità. Comunicando alla sua umanità, proprio nell’abbandono, quel darsi assoluto che è l’Amore, il Cristo fa scaturire nella nostra umanità cui si è unito, la potenza creatrice di Dio, per la quale, strappati alle nostre individualità chiuse siamo fatti persona nell’unica Persona del Figlio.

Dagli individui peccatori nascono, per l’obbedienza d’amore del Figlio sino all’abbandono, i figli di Dio, le persone divinizzate. I molti, divisi, sono fatti uno – meglio: l’Uno. Gesù.

Per Gesù abbandonato io sboccio pienamente nella mia vita non avendo più una mia vita. San Paolo non si stanca di ripeterlo: «Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Vedere ancora se stessi come un io opposto a un tu, significa non aver seguito l’esodo di Gesù dall’abbandono alla risurrezione. Pensare di potere abbracciare il Padre come figlio ciascuno da solo, non nella comunione fra noi in quell’unico Figlio che siamo in Gesù, significa, sempre nell’ottica paolina, essere ancora sotto la Legge e non nella libertà della Grazia.

Cosa significa tutto questo
per chi deve fare teologia?

 

I maestri dello spirito sono concordi nell’affermare, testimoniandolo, che dopo le Notti del cammino spirituale la conoscenza di Dio si apre ad una novità radicale, già data nel Nuovo Testamento ma che lo Spirito va maturando nei tempi della Chiesa: si apre il passaggio dal discorso di scienza al discorso di sapienza, alla teologia apofatica – la teologia, cioè, che pensa Dio in Dio nel modo di Dio.

Vorrei qui citare due passi delle Scritture che mi sembra sottolineino quanto sto dicendo.

«E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori» (2Pt 1, 19).

«E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione del Signore che è lo Spirito» (2Cor 3, 18).

Questo esser fatti Cristo – e dunque vivere e pensare nel modo di Cristo – è quella che vorrei chiamare la teologia grande, la vita nella Trinità. Soggetto di essa siamo noi quando siamo fatti uno: non io o tu, ma veramente Gesù per l’eucaristia operante sul nulla di noi e nell’amore reciproco.

Allora, affinché questa grande teologia si realizzi compiutamente e compiutamente sia sperimentata, occorre che non sia il singolo come tale a dar vita a questa teologia, ma il singolo come membro del Corpo di Cristo, e perso nell’unità con Gesù nei fratelli e – lo sottolineo – nella piena consapevolezza di questa realtà. Il soggetto di questa teologia non sono io come io, né un noi inteso in senso esterno, sociologico: il soggetto è la nostra persona teologica, il Cristo fra noi.

Questa teologia è la Chiesa stessa: tanto più vera quanto più coscientemente vissuta in quanti la compongono. I quali, prima ancora dell’esercitarsi nella riflessione teoretica devono imparare a comporre tra loro, persona nel Cristo, quel discorso che è la vita stessa umano-divina, il discorso che è Gesù fra noi.

Che cosa ne è dell’altra teologia, quella dello studio, e che vorrei chiamare “piccola”? Quella che conosce la ricerca intellettuale e, per dirla con Hegel, la “fatica del concetto”? La teologia fatta dalle povere parole umane? Anch’essa ha la sua dignità e la sua necessità: perché il Verbo si è fatto carne, si è fatto tutte le dimensioni umane, inclusa quella razionale. Ma è dalla prima teologia, la vita in comunione, Gesù in mezzo, che la seconda teologia deve trarre i concetti nuovi, ispirati da Dio stesso, come scriveva san Tommaso d’Aquino.

Prima ancora, però, occorre imparare un metodo nuovo di pensare, adatto alla novità che deve essere raggiunta: è il pensare come pericoresi, comunione trinitaria, evento vissuto e voluto come comunitario. Va scoperto e vissuto un modo nuovo di concepire ed esercitare l’atto del pensare da cui nasce ogni cultura: intenzionalmente e coscientemente esso deve essere vissuto da me come amore tutto dato, mio e non più mio. Io penso nell’altro come in me. E questo altro, a sua volta, nel suo ascolto inteso anch’esso come amore kenotico, accettando il dono del mio pensiero, facendolo suo, me ne spoglia, consentendomi così di attuare sino in fondo il pensare come dono. E restituendomi a me ma arricchito da lui. L’atto del pensare, allora, non è più mio né tuo né nostro: è di Gesù. Possiamo dire che il pensare trova il suo luogo nell’interiorità di Gesù che vive fra noi, nel suo pensare stesso; o per dirla con San Paolo: «noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 16). Solo un tale stile di pensiero può esprimere tutta la teologia dell’Evangelo.

Gesù abbandonato e la filosofia

Il mondo uscito dal mito ha cercato di dare nome a Colui al quale con tutte le sue forze l’uomo tende.

I Greci lo hanno chiamato l’Essere. E affascinati da questo “Essere” ma insieme maturanti in sé la gestazione del soggetto umano (si pensi a Socrate), hanno sottolineato di fronte all’Essere la parola, il logos. Ma un logos che, proprio per questo, per la sua frontalità all’Essere, era tutto stupore e meraviglia, attesa della manifestazione dell’Essere stesso, della verità come aletheia, svelamento. Atteggiamento filosofico dimenticato nella storia della filosofia occidentale.

L’Oriente, ubriaco di assoluto, ha preferito, dimentico di sé, sottrarre l’Essere alla parola per custodirlo nella sua assoluta – e per noi oscura – chiarità che qualunque parola non può che appannare. È il nirvana del Buddismo, il neti-neti (né questo né quello) dell’Induismo.

Il pensiero tradizionale africano ha preferito cogliere ed esprimere l’Essere non nella parola (sia che essa dica sia che essa neghi), ma nella vita stessa nel suo pulsare, nei suoi ritmi: la percezione della misteriosa pulsazione ritmica dell’Essere-Vita, del suo cuore (intuita dai Greci e dall’Oriente), è stata affidata dall’uomo dell’Africa più che all’essere-non-essere della parola al ritmo degli enti, alla loro danza nella quale è dato l’Essere vivente.

Da questo ventaglio di posizioni emerge la tensione dell’uomo che confessa il suo amore e la sua impotenza davanti ad una porta – la porta che introduce nel mistero di Dio – cui bussa ma che sente sigillata.

Gesù abbandonato è questa porta spalancata. Egli, che è l’Essere stesso, dice se stesso sempre relativo a un Altro, anch’egli Essere, con cui è assolutamente uno pur in una assoluta distinzione. Ed egli dice ciò nel silenzio di sé parola (si pensi al grido dell’abbandono!); egli dice ciò donando lo Spirito che è amore.

Nell’Essere viene così rivelato un “non”, un nulla senza il quale sarebbe impensabile e impossibile quella relazionalità che Gesù rivela. Ciascuno dei Tre è, ma non è, e realmente, l’Altro. È proprio l’avvenimento dell’abbandono che introduce in positivo a questa comprensione: nell’Essere si apre uno squarcio, una piaga, attraverso la quale possiamo contemplare l’Essere nel suo mistero profondo e raggiungerlo e vivere e capire il nostro essere nell’Essere.

Ma non possiamo non chiederci: non è contraddizione pensare un non essere (squarcio, piaga, distinzione) nell’Essere? Parmenide se lo era chiesto, per affermare questa contraddizione. Di fatto, la contraddizione è solo apparente, a condizione che ci accostiamo ad essa con la logica che scaturisce essa stessa dall’Essere piagato. Infatti, questo non-Essere che apre l’accesso all’interiorità dell’Essere è ancora e sempre Essere: infatti, questo non-Essere è sì Nulla, ma un Nulla che è, perché è Amore.

Ecco finalmente la grande parola detta dal Nuovo Testamento e che deve essere oggi ridetta, per strappare l’Essere a quella compattezza immobile e indicibile nella quale veniva pensato.

Tutto questo, dobbiamo esserne coscienti, suppone il passaggio del pensiero da un essere-concetto (affermativo o negativo) a un essere-vivo ma che sia soggetto: la persona come relazione d’amore, la persona come parola che è vita.

È solo nelle persone come dono reciproco – quel dono che le fa non essere ma, proprio per questo, essere, amore – che il pensiero può essere compiutamente cristiano.

Un pensiero espresso più che nell’astrattezza dei concetti, nei gesti d’amore della vita. Un bicchiere d’acqua dato per amore dice di Dio assai più di un discorso articolato. E ancora di più lo dicono i gesti e gli accadimenti della semplicità quotidiana se vissuta nell’amore reciproco.

Giuseppe Maria Zanghì