Un rapido sguardo attraverso la storia sul significato

dell’abbandono di Gesù in croce

 

Il grido di Gesù sulla croce

di Pasquale Foresi

 

Attingendo alla Scrittura e alla storia della teologia, l’autore ci propone un approfondimento dell’abbandono di Gesù in croce da parte del Padre, interrogandosi da un lato sul significato di questa esperienza del Verbo fatto uomo e dall’altro sul modo in cui noi diveniamo partecipi di questa realtà e dei suoi frutti.

E Gesù pronunciò a gran voce sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»1. Già allora quelli che stavano attorno non capivano quello che Egli stava dicendo. Dissero: «Sta chiamando Elia»2.

Questa frase è riportata da due evangelisti: da Matteo e da Marco, rispettivamente in ebraico e in aramaico. Matteo scrive: «Helì, helì, lemà sabactanì» e Marco: «Heloì, heloì, lemà sabactanì».

Si è discusso fra gli studiosi per stabilire in quale lingua Gesù avesse pronunciato quelle parole. Adesso si è concordi nell’affermare che Gesù le pronunciò in lingua aramaica, cioè nella lingua dialettale parlata al suo tempo.

Queste parole sono anche l’inizio del Salmo 22, un Salmo messianico: vi si descrivono, infatti, i patimenti e gli stati d’animo che il Messia avrebbe sofferto. Non è che Gesù sulla croce abbia voluto recitare questo Salmo per far vedere che era il Messia: no. Egli – durante la crocifissione – ha sentito gli stessi dolori che erano stati già, per profezia, espressi nel Salmo 22. In esso si parla di un giusto circondato da potenti nemici, e che si sente abbandonato da Dio.

Il grido di abbandono di Gesù non è però un grido di disperazione nei riguardi di Dio, ma un grido di invocazione. Il Salmo, infatti, termina con un inno di fiducia in Dio, che avrebbe certamente liberato i giusti dai nemici e avrebbe dato loro la vittoria.

Da questa semplice analisi vediamo già come il grido di Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» esprime gli stessi sentimenti del Salmo. Era una constatazione dolorosissima, ma anche piena di fiducia per ciò che Dio avrebbe fatto.

Ed è bello vedere che Gesù ha voluto ripetere quelle parole del Salmo non in lingua ebraica – usata per scrivere la maggior parte della Bibbia – ma in lingua aramaica, la lingua parlata. Egli ha rivissuto in sé quegli stati d’animo e li ha ridetti con le parole di tutti i giorni.

 

«Perché mi lasci
in questa situazione dolorosa?»

Abbiamo voluto analizzare il significato di questo “abbandonato” in ebraico – perché bisogna appunto rifarsi al Salmo 22 – e abbiamo visto che il significato di questa parola non ci dice affatto una volontà positiva da parte di Dio di abbandonare Gesù, ma dice il lasciare stare una persona senza intervenire in una situazione dolorosa.

Nel Salmo è descritta una persona che è circondata da leoni, da bestie feroci, e nessuno interviene a liberarla. Questo è il significato della parola usata.

Matteo e Marco hanno espresso ciò nella traduzione ispirata che loro stessi ne hanno dato. Infatti ambedue, dopo la citazione ebraica ed aramaica, traducono il verbo col greco “enkataleipo” (“leipo” vuol dire in latino “relinquo”, cioè lascio; “en” significa uno stato, “kata” significa spesso una cosa negativa; basti pensare alle parole italiane che incominciano con kata, come catastrofe, catalessi, ecc.). Il verbo greco “enkataleipo” vuol dire: «Perché mi lasci in questa situazione dolorosa?»

E questo significa per Gesù sentirsi abbandonato dal Padre: sentirsi lasciato dal Padre, che, non intervenendo in suo favore, lo lasciava, lo abbandonava in una situazione terribile e dolorosa.

 

Il mistero dell’abbandono
del Figlio da parte del Padre

Ma come Gesù può avere sofferto una certa separazione, un certo abbandono, da parte del Padre, se Egli era sì uomo ma anche Dio?

Si è di fronte al mistero più grande della nostra fede: l’incarnazione.

In genere non abbiamo sufficientemente chiaro nel nostro pensiero chi sia veramente Gesù. Si sa che Gesù è Dio, che Gesù è uomo, un uomo come noi; bisogna però tener presente che è un uomo unito ipostaticamente – dice la teologia – alla divinità, la sua persona è quella del Verbo-Dio. E quindi è logico pensare che Egli abbia avuto come uomo dei doni, delle grazie tutte particolari.

Questo è un mistero così grande che non possiamo comprenderlo appieno, perché è il mistero stesso di Dio: come Dio si possa incarnare e assumere la natura umana.

Consideriamo, per meglio capire quanto stiamo dicendo, i tipi di conoscenza che sono propri di Gesù.

Mi rifarò al pensiero dei teologi nei secoli passati. Egli, ritenevano, non era come noi che nasciamo come tabula rasa. Gesù, dicevano i teologi, aveva già sulla terra, come uomo, la visione beatifica: vedeva Dio direttamente, faccia a faccia, ed in Lui tutte le realtà divine.

Secondo i teologi di allora, questa visione, che è propria delle anime sante del cielo, era dunque posseduta da Gesù sulla terra. Una conoscenza del tutto spirituale; un tipo di conoscenza che non dipendeva assolutamente dai sensi, né dallo sviluppo del nostro corpo.

Secondo i teologi medievali e postmedievali, Gesù aveva questa conoscenza fin dal primo istante del suo concepimento, quando era ancora nel seno di Maria Santissima.

I teologi di oggi, in generale, non ammettono più questo tipo di visione in Gesù, perché pensano che essa di fatto annullerebbe la realtà concretissima della sua umanità.

Possiamo dire però con certezza che Gesù aveva una conoscenza di Dio e del creato che gli veniva dal suo essere in persona il Figlio di Dio incarnato: conoscenza che si esprimeva in una capacità unica di capire le Scritture, di leggere i segni dei tempi e di scrutare i cuori.

Inoltre, possiamo pensare che Gesù avesse quella che i medioevali chiamavano scienza infusa, cioè una certa conoscenza delle cose divine e umane che veniva immessa nell’animo di Gesù da Dio stesso. Questo tipo di conoscenza lo troviamo nella vita di alcuni santi: basti pensare a santa Caterina da Siena, che da analfabeta fu così illuminata dallo Spirito Santo da dettare libri teologici, ed è per questo che è stata proclamata Dottore della Chiesa.

Ma in Gesù non poteva non esserci anche la conoscenza tipicamente nostra, la conoscenza sperimentale. Questa conoscenza umana comune, in Gesù, non era perfetta fin dall’inizio, poiché era legata al corpo e non poteva non svilupparsi se non con la sua crescita nell’età.

Questi tipi di conoscenza, sempre secondo i teologi medievali, erano ben uniti tra essi, in una maniera che non è facile comprendere.

In questa ottica, possiamo pensare che Gesù sapesse, nel suo modo, che avrebbe patito l’abbandono. Ma non possiamo non pensare, anche, che quando l’evento lo raggiunse, ed Egli ne fece esperienza, fu per Lui qualche cosa di assolutamente nuovo, e dolorosissimo.

 

Che cosa è accaduto
nel momento dell’abbandono?

Vediamo adesso come si possono applicare queste nozioni al momento della passione, quando Gesù soffre l’abbandono da parte del Padre.

Alcuni scrittori ecclesiastici, e perfino sant’Ambrogio, hanno interpretato il grido di abbandono di Gesù come espressione della separazione dalla divinità, ipotesi che è stata subito rigettata da tutti i teologi, perché se nel momento della passione, della redenzione, l’umanità di Gesù si fosse separata dalla divinità la redenzione non sarebbe avvenuta ad opera dell’Uomo-Dio e quindi non avrebbe avuto valore infinito.

Il fatto però che un padre della Chiesa così grande come sant’Ambrogio abbia avanzato quest’ipotesi, ci invita a cercare di comprendere perché egli sia arrivato ad esporre questa teoria. Studio che finora non c’è stato.

Cosa è accaduto nel momento dell’abbandono? Gesù ha sperimentato in sé, come uomo, il non intervento di Dio, la separazione da Lui; in quel momento Egli si sentì ricoperto dei nostri peccati (infatti anche questo si ricava da una antica traduzione del Salmo 22).

Ma come è possibile che Gesù si sia sentito ricoperto da peccati, Lui che come uomo non solo non aveva mai peccato ma non poteva neanche peccare, perché la sua umanità era unita ipostaticamente alla divinità?

Dobbiamo però tener conto che Gesù era unito a tutta l’umanità: cioè, se Gesù come natura individua era unito ipostaticamente alla divinità, era unito anche all’umanità; per la sua corporeità egli discendeva da Adamo ed Eva, dai Patriarchi, da Abramo. Gesù, che non aveva in sé nessun peccato, nella sua natura umana unita alla nostra ha voluto e potuto provare le conseguenze del peccato che è negli uomini, ha voluto provare il dolore della separazione da Dio a causa del peccato.

Come uomo unito a tutti gli uomini, Egli in quel momento ha sentito e ha provato questa separazione dal Padre.

Facciamo un esempio: ammettiamo che in una famiglia qualcuno commetta un delitto, uccida una persona; i fratelli di lui sono innocenti ma certamente non possono non sentire in sé il peso del delitto, appunto per la consanguineità.

In Gesù c’era questo legame, e molto di più, perché Egli aveva unito a sé tutta l’umanità.

Ma Egli, piagato da quell’infinito dolore, si riabbandonò al Padre, offrendogli il suo dolore. E così operò non soltanto la sua glorificazione corporale, ma anche la redenzione di tutto il genere umano, la redenzione di noi tutti.

Tutto ciò ci fa vedere come siamo legati a Gesù, quanto Gesù è legato a noi.

Ed è proprio nell’abbandono che possiamo contemplare questa nostra impensabile unione di Gesù con noi e di noi con Gesù, e il suo impensabile amore per noi.

Gesù, quando ha provato nell’abbandono il dolore dell’umanità che aveva peccato contro Dio e si era separata da Dio, ha vissuto il più grande dolore che mai si sarebbe potuto pensare. Era stato provato da dolori fisici atroci; ma, come ci dicono i santi, i dolori spirituali sono assai più intensi e devastanti di quelli fisici. E fra i dolori spirituali, quello provocato dall’abbandono fu il più grande di tutti: Gesù, Figlio di Dio, si sentì abbandonato dal Padre Dio, sentendo come suoi, intrinseci, tutti i peccati dell’umanità.

E così compiendo la sua missione.

San Tommaso si pone una questione: la redenzione è meritoria con la morte in facto o in fieri? Cioè, la redenzione si è compiuta mentre avveniva la passione fino alla morte o alla morte compiuta? San Tommaso risponde che la redenzione è avvenuta in tutto quello stato doloroso che va dall’agonia fino alla morte; con la morte e la risurrezione si compie la redenzione.

Questa dottrina di san Tommaso è stata fatta propria dalla Chiesa che l’ha inserita nell’Oremus, nella preghiera della liturgia eucaristica.

 

La comprensione moderna:
un nuovo orizzonte

A questo punto, sottolineo che la teologia contemporanea, mentre si apre ad una comprensione più realistica della realtà umana di Gesù, ha cominciato a compiere anche una penetrazione nel mistero dell’abbandono più profonda di quella realizzata dai maestri medievali.

Si è cominciato a leggere nel grido dell’abbandono l’apertura che ci consente di entrare nell’intimo stesso del rapporto di Gesù con il Padre, nell’intimo dei rapporti trinitari.

È tutto un orizzonte nuovo che si apre per comprendere la creazione, l’Incarnazione, i rapporti tra noi uomini, le realtà umane.

E qui il Movimento dei focolari ha tanto da dire.

 

Gesù abbandonato e noi

Ancora qualche considerazione.

Nel momento dell’abbandono, del suo massimo amore per noi, possiamo pensare che tutti noi eravamo presenti a Lui che ci ricapitolava. Eravamo presenti uno ad uno nella sua anima (questo è un altro punto meraviglioso della dottrina della passione). Gesù con la sua visione spirituale penso che conoscesse tutti quelli che sarebbero venuti, e quelli che già c’erano stati, e c’erano in quel momento; tutti erano presenti. Tutta la Chiesa, tutte le realtà spirituali che sarebbero sorte nella Chiesa, tutti i movimenti spirituali. E perché non pensare che era presente a Lui anche, in qualche modo misterioso, quel Movimento che avrebbe fatto di questo grido: «Dio, mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» il cardine della sua spiritualità?

Ancora. Quando, dopo il grido dell’abbandono, Gesù ha esclamato: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito», ci ha voluto dire che tutto si era compiuto: non ci ha ottenuto solo la remissione di tutte le nostre colpe, così da salvarci soltanto, ma ci ha fatto divenire membra del suo Corpo, altri Lui.

Questi concetti sono per noi misteriosi, perché siamo abituati a vederci con gli occhi della carne, a vederci frazionati; ma la realtà è che siamo cellule del Corpo di Cristo. E questo suo Corpo di cui siamo membra non si deve intendere come qualcosa di generico o di vago o come una pia associazione o una società morale: noi siamo veramente, anche se misteriosamente, assunti a sue membra, e lo Spirito Santo è l’anima nostra, l’anima del Corpo mistico di Cristo. Con questa caratteristica: che lo Spirito Santo ci unisce più completamente fra noi di quanto siano unite le cellule del nostro corpo: esse, infatti, sono unite da un’anima creata, mentre noi siamo uniti dallo Spirito Santo che è Dio, e quindi molto più perfettamente, pur rimanendo distinti e responsabili.

Per questo possiamo dire che i santi e le famiglie religiose da essi fondate sono come un momento della vita di Gesù che continua nella Chiesa. Tutto ciò è vero, perché la vita dei cristiani, essendo essi il Corpo di Cristo, non è altro che la stessa vita di Gesù che rifluisce in noi e vive in noi.

La nostra pazienza non è una pazienza pagana che si chiama cristiana solo per il battesimo; è la pazienza stessa di Gesù che vive in noi. Così la carità non è un sentimento di benevolenza rivolto a Cristo, è la carità stessa di Cristo che penetra in noi: ci fa amare gli altri con il suo stesso amore.

In Paradiso tutto ciò sarà piena realtà, perché vedremo Dio a faccia a faccia, e la vita nostra sarà così come essa è veramente: «Adesso noi vediamo come in uno specchio in maniera confusa; allora vedremo a faccia a faccia; adesso io conosco in modo imperfetto, allora conoscerò per bene come sono conosciuto»3.

Per concludere. Se dobbiamo vivere Cristo, dobbiamo vivere quello che Egli ha vissuto; e Cristo ha vissuto in modo del tutto particolare la salvezza e la divinizzazione del genere umano. Tutto quanto Egli ha vissuto, tutto era una preparazione al momento nel quale Egli avrebbe compiuto la sua missione: fare di noi suoi fratelli, figli di Dio.

L’autore della lettera agli Ebrei afferma, mettendo queste parole sulle labbra di Gesù: «Perciò entrando nel mondo (...) dissi: eccomi (...) a fare o Dio il tuo volere»4. Fin dal primo istante della sua vita umana, il Verbo disse il suo ‘sì’ al dolore della crocifissione; e la sua vita non fu che una preparazione al Calvario. Esso rimase il faro orientatore di ogni sua azione, di ogni sua parola, di ogni sua preghiera.

Rivivere in noi perciò Gesù crocifisso e abbandonato sarà uniformarci ai sentimenti interiori di Gesù.

Sarà molto di più: sarà un lasciarlo vivere in noi per la grazia di quegli atti di amore e di dolore che il Signore provò sulla croce, partecipando così anche noi al compimento della sua passione con la nostra sofferenza piena di amore. Fino ad essere introdotti nella condivisione della Gloria che la sua umanità ha accanto al Padre.

Pasquale Foresi

 

1)   Mt 27, 46; Mc 15, 34.

2)   Mt 27, 47.

3)   1Cor 13, 12.

4)     Eb 10, 5-7.