Esercizi spirituali ai seminaristi del Pakistan

 

La spiritualità di comunione risponde ai bisogni dell’Asia

di Brenda Leahy

 

Che un sacerdote e docente di teologia dell’Irlanda vada a predicare gli esercizi spirituali ai seminaristi di un lontano Paese asiatico quasi interamente musulmano, può sembrare una pazzia. Eppure l’insistenza della richiesta era fondata. Vediamo perché.

«Ce la faccio?». È la domanda che mi pongo quando ricevo il pressante invito di don Rufin Anthony, rettore del Christ the King Seminary di Karachi, di tenere un corso di esercizi spirituali dal 30 gennaio al 4 febbraio 2003, ai suoi seminaristi. Passano le settimane e la domanda diventa più specifica: come mi muoverò e di che cosa parlerò?

Un fatto mi dà coraggio e mi suggerisce pure il tema. Leggo della visita di Chiara Lubich nel Seminario di Mumbai in India, dove la fondatrice dei Focolari ha illustrato la spiritualità di comunione di cui parla Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte (cf 43-45), raccontando ai seminaristi la sua esperienza, che dura ormai da sessant’anni, nata da un carisma dei nostri tempi.

Parlando con i seminaristi, Chiara ha messo in rilievo diversi punti che sono come un “concentrato” della fede evangelica e cardini della spiritualità di comunione: Dio-Amore, la volontà di Dio, l’amore al fratello, l’amore reciproco, la Parola, Gesù crocifisso e abbandonato, l’unità.

Maturo allora una decisione, confermata successivamente nel confronto con altri fratelli sacerdoti: devo parlare della spiritualità di comunione. Per far ciò, però, più che le mie parole deve essere la mia vita a parlare. Nemo dat quod non habetet est!

L’ambiente

Per prepararmi, cerco di farmi un’idea del contesto del Seminario di Karachi. Formando un complesso unico con l’Istituto cattolico di teologia, è il seminario nazionale. Ci sono 27 seminaristi che provengono dalle sei diocesi della Chiesa cattolica in Pakistan. In questo immenso Paese musulmano di 130 milioni di abitanti – dopo l’Indonesia il Pakistan è il secondo paese più grande del mondo musulmano – i cattolici sono 800.000. La bassissima percentuale riflette la demografia generale dell’Asia dove i cristiani, come si sa, sono appena il 3% della popolazione.

Indubbiamente, di fronte a tali statistiche, in Asia, culla delle grandi religioni del mondo, ci vuole una via nuova per parlare del Cristianesimo. Nel documento Ecclesia in Asia il Papa afferma che in questo Continente la gente ascolta più i testimoni che i maestri, e che, in questa regione del mondo dove è nato Gesù, colpisce più la santità di vita che gli argomenti intellettuali. Tutto questo spiega perché Giovanni Paolo II esorta i cristiani dell’Asia a testimoniare l’Amore di Dio. E fa capire perché madre Teresa di Calcutta ha avuto un impatto così incisivo.

Una «cellula» di comunione

Per fortuna, don Rufin Anthony è di quelli che sentono profondamente la necessità di vivere una spiritualità di comunione. È davvero un uomo di dialogo, stimato da tanti. Conosce e cerca di condurre da anni la sua vita all’insegna della comunione con laici e presbiteri del Focolare, della sua diocesi ed, ora, con tutti i prossimi nel seminario.

Sono colpito da cosa significa per lui vivere in comunione. Mi racconta, per esempio, che trovandosi anni fa in parrocchia in un posto isolato e sovraccarico di impegni, egli affrontava in motocicletta un viaggio di 40 km per arrivare al paese più vicino e poter telefonare a qualcuno con cui mettere in comune la vita del Vangelo vissuto.

Sì, per don Rufin, il desiderio di proporre ai sacerdoti e ai futuri pastori la spiritualità di comunione, come egli stesso la sperimenta, è un atto d’amore, o meglio, un’esigenza d’amore.

Così con lui e con gli altri membri dell’équipe di formazione, vivo in una specie di “cellula di comunione”. Ascoltando loro e scambiandoci le idee trovo luce su come procedere negli esercizi con i seminaristi. E questa “cellula” non è limitata ai superiori. Si apre anche ai seminaristi stessi coi quali riesco a confrontare le mie prime idee.

Nella casa di Maria

Gli esercizi spirituali si svolgono al “monastero degli angeli” in Karachi, un convento di suore contemplative domenicane, unico nel suo genere in Pakistan. Il posto è eccezionale con una vegetazione tropicale, colorata e incantevole.

Per la circostanza, vivo un momento di grazia con le suore: una di loro, un’americana che da 50 anni è in Pakistan, sta partendo per la casa del Padre.

Incontrandomi in diversi momenti con le suore in un clima alto di preghiera e di raccoglimento, diventa facile vedere quanto il monastero sia davvero “giardino chiuso” e “fonte sigillata” dell’unione con Dio.

Mi viene da pensare che è proprio quest’unione con Dio, vissuta dai e dalle consacrate nei monasteri durante secoli, che Dio vuole ora far emergere fra il popolo, compresi i seminaristi e i sacerdoti diocesani, con la spiritualità di comunione vissuta nel quotidiano.

Forse non è per caso che ci troviamo in una casa di Maria per gli esercizi. Qui viene in rilievo che ciò che conta è l’unione con Dio.

Cominciamo

Prima di cominciare il ritiro aiuto gli studenti a preparare la sala. È una buona occasione per costruire un rapporto di amicizia. I seminaristi sono bravissimi. Mi accolgono con sincerità e calore.

Vediamo come mettere le sedie in un cerchio per far sì che gli esercizi non diventino un “discorso” diretto a loro, ma un avvenimento costruito insieme. Parliamo anche del Shalwar-Kameez, vestito tipico del Pakistan, che, insieme con don Rufin, ho appena comprato strada facendo, e che porterò nei giorni seguenti.

Nell’introduzione al ritiro, propongo una base spirituale per la nostra convivenza. Vogliamo che questi giorni siano utilizzati bene e non sciupati. Perciò vogliamo assicurare la presenza di Gesù fra noi. Sappiamo che Egli è presente tra i suoi fino alla fine dei tempi, ma può esserlo in misura maggiore o minore. Dipende da noi. Affinché gli esercizi siano fruttuosi anche per il futuro, ci vuole un amore fra noi che meriti una sua presenza particolare.

Prendendo spunto dall’immagine degli scalatori delle montagne che spesso vanno legati in cordata, ho proposto di sentirci tutti responsabili per la riuscita degli esercizi, perché ognuno è responsabile per la santità dell’altro come della propria. È la logica del Vangelo.

Facciamo quindi una specie di patto, un momento di silenzio e raccoglimento in cui ognuno può dire a Gesù dentro di sé che vuole, con l’aiuto di Dio, vivere per l’altro, vivere l’altro, amare con la misura di Gesù: pronti a dare la vita gli uni per gli altri.

Per le successive meditazioni mi muovo così: avendo letto in un libro del Card. Van Thuan che in Asia contano più le esperienze e le immagini che non i concetti e le teorie, racconto numerose esperienze. Invito anche gli studenti a fare esperienza del Vangelo, vivendo la Parola, anzi lasciandosi vivere dalla Parola.

Gli esercizi: la via della vita

Durante gli esercizi c’è silenzio. Ma c’è anche la parola. I pasti, le passeggiate, lo scambio di impressioni e riflessioni dopo le meditazioni, diventano momenti di gioia. Tutto diventa occasione per vivere fra noi l’arte d’amare, aiutandoci, ascoltandoci, rispettandoci. Sono momenti per scoprirci fratelli.

Con alcuni, poi, il rapporto nato attraverso la spiritualità di comunione, mi porta luce nuova su come impostare o cambiare il programma giorno per giorno. Così, per esempio, in un bel momento di dialogo un seminarista mi ha suggerito l’idea di invitare gli studenti a venire a trovarmi per raccontare la storia della loro vocazione.

Tutti gli studenti desiderano parlare con me. Ogni colloquio si trasforma in una vera comunione d’anima fra di noi, dove emergono con semplicità le luci e le ombre della vita da vedere insieme in questo clima di fraternità, raccoglimento e gioia.

L’ultima giornata, poi, come conclusione, tanti mettono spontaneamente in comune ciò che hanno capito per la loro vita durante questi esercizi vissuti nello spirito di comunione. Parlano di una nuova scelta di Dio, della decisione di mettere al primo posto nella vita Lui e non il sacerdozio, e ancora: della scoperta della volontà di Dio e del fratello come via a Dio. Viene in rilievo pure come è cresciuto il bisogno di riconciliazione interpersonale e non solo di quella sacramentale che pure non manca.

La reazione dei seminaristi

Ogni giorno si è fatto più forte lo spirito di famiglia soprannaturale cosicché tutti – come hanno detto – si sono sentiti più felici, più liberi, più capaci di aprirsi gli uni agli altri e così più illuminati nelle loro scelte. In questo clima è stato possibile anche parlare in maniera molto aperta del celibato come espressione di un amore più grande.

Qualcuno ha commentato: «Mi ha molto colpito il tema “Dio è Amore”. Ho partecipato a tanti ritiri, fra cui molti in silenzio, ma quest’esperienza di comunione è più potente e vivace… Qui ho sperimentato e capito che, per raggiungere l’Amore di Dio e fare la sua volontà, abbiamo bisogno di comunione. Non possiamo andare a Dio da soli…».

Un altro: «La spiritualità comunitaria mi ha fatto comprendere che devo costruire la comunione con tutti, qualunque sia la religione, il colore, la razza o la cultura dell’altro».

Vari hanno messo in rilievo l’importanza delle esperienze che avevo raccontato e ciò mi ha fatto capire che le esperienze del Vangelo sono parole teofore con una risonanza universale: «Quando avevo sentito che sarebbe venuto un sacerdote dall’estero, ho pensato che sarebbe stato difficile capirlo… Non aspettavo un ritiro piacevole… Ma ora, ho l’impressione che ci conosciamo da molto tempo… Il modo col quale hai condiviso le tue esperienze personali è stato un ottimo metodo, perché sono gli esempi vivi a dare luce… Mi ritrovo in queste esperienze e vedo che faccio spesso le stesse esperienze».

Nell’insieme, quei giorni sono stati un momento di grazia dove si capiva che il seminario non è un “gruppo” qualsiasi dove impera – per dirla con C. G. Jung – quel tipo d’amore per cui ognuno dice «Ti amo, perché ho bisogno di te», ma è piuttosto una casa e scuola di vita “trinitaria”, dove si sperimenta quell’amore maturo, cristiano per cui ognuno dichiara: «Ho bisogno di te, perché ti amo».

Un epilogo

Nel periodo della mia permanenza a Karachi, ci si preparava alla celebrazione dell’ Eid-ul-Azha, la festa musulmana del sacrificio che commemora, a 40 giorni dal Ramadan, la disponibilità di Abramo a obbedire a Dio.

Quanto faceva pensare ad un europeo come me vedere per le vie di una città di 12 milioni di abitanti migliaia di persone che portano a casa animali diversi (capre, pecore, mucche…, cammelli) per sacrificarli sulla strada la mattina della festa! Mi veniva spiegato che, secondo il Corano, la carne dovrà poi essere divisa in tre parti: una per i poveri, una per la famiglia e una per i parenti e vicini.

Veniva da dire: indubbiamente solo persone formate in una “casa e scuola della comunione” potranno entrare in dialogo con una cultura musulmana così forte come quella del Pakistan.

Vedendo l’accoglienza che i seminaristi hanno dato alla spiritualità di comunione, ho pensato che forse, essendo questo terzo millennio quello dell’evangelizzazione dell’Asia, essi hanno una grazia in più, una predisposizione tutta speciale, per entrare in questo nuovo stile di vita.

Brendan Leahy