Germania: formare sacerdoti per una Chiesa evangelizzatrice

 

Attorno al Risorto una scuola di vita

di Wilfried Hagemann

 

Riportiamo la parte che ci sembra più interessante per i nostri lettori, della relazione che il rettore del Seminario pastorale di Münster, Germania, ha tenuto nel dicembre 2002 a Paderborn, durante il simposio sulla formazione dei futuri sacerdoti nei Paesi di lingua tedesca. L’autore si domanda: «Come preparare i seminaristi al loro specifico servizio di evangelizzatori nella nostra società sempre più secolarizzata?».

Di quali sacerdoti
ha bisogno la Chiesa?

Abbiamo bisogno di uomini di Dio competenti spiritualmente e aperti al nostro tempo, capaci anche di affrontare le particolari sfide della situazione odierna. Il sacerdote di oggi e ancor più quello di domani, infatti, non lavora più in strutture ben circoscritte come lo erano le parrocchie di un tempo.

Non di rado egli viene ad operare in campi d’azione pastorale nei quali intervengono anche altri sacerdoti, operatori pastorali a tempo pieno e numerosi altri laici che collaborano in vari modi alle dimensioni fondamentali della liturgia, della testimonianza e della diaconia, nonché al compito sempre più impellente di dar vita ad una comunità missionaria.

Il sacerdote deve essere dunque maturo e capace di prendere inziativa, ma anche di calibrare e sviluppare il suo approccio alla pastorale tenendo conto delle mutate circostanze della società odierna. E deve fare ciò in armonia con l’insieme del personale pastorale presente in quel determinato luogo, mantenendosi al contempo unito con il vescovo e i suoi collaboratori a livello diocesano. Deve essere in grado di coinvolgere in una vita evangelica persone provenienti da cammini di fede diversi e con interessi differenti e saperle unire, tenendo presente la diversa intensità con cui ciascuna di esse è venuta in contatto col mistero della fede.

In una situazione del genere, c’è bisogno di persone che siano da una lato “pionieri” disposti ad avventurarsi in campi nuovi, ma che dall’altro lato siano guidate nel loro agire da una profonda spiritualità e saldamente ancorate alla Chiesa, alla tradizione ecclesiale e a coloro che sono i garanti dell’unità: il Papa e i vescovi.

È questa una sfida da non sottovalutare, soprattutto se si considerano le variegate biografie dei candidati attuali.

Certamente non tutti dovranno essere in un domani responsabili di una grande parrocchia o di un’unità pastorale, ma anche coloro che sono impiegati in un ospedale, in una scuola o in un centro giovanile, devono saper svolgere il proprio compito e guidare spiritualmente singoli e gruppi in piena intesa con gli altri sacerdoti e cooperando armoniosamente con i laici.

Sorge allora la domanda: i nostri candidati al sacerdozio sono ben attrezzati per questi compiti, o queste sfide sono a volte al di là delle loro capacità? Questa è la mia preoccupazione.

Il seminario maggiore

Se penso al mio corso – siamo stati ordinati nel 1963 – devo prendere atto che il seminario come era impostato allora, come un ambiente protetto e con una disciplina severa, ha potuto prepararci solo insufficientemente alle sfide della rivoluzione studentesca del 1968, agli sconvolgimenti dell’epoca post-conciliare e soprattutto all’attuale mancanza di credenti e di sacerdoti.

Viene da chiedersi: il seminario di oggi è all’altezza di preparare sacerdoti per una Chiesa che è chiamata ad essere decisamente evangelizzatrice? E ancora: nell’educazione che impartiamo, si mantiene viva ed anzi si sviluppa quella passione per Dio e per gli uomini che si avverte spesso nei candidati quando sentono la chiamata al sacerdozio e compiono i primi passi su questa strada? In che misura riusciamo a tenere viva l’intuizione della vocazione, quel fuoco del primo entusiasmo che, a dispetto d’ogni malaugurio, fa sì che anche oggi dei giovani si incamminino sulla via del sacerdozio?

È proprio su queste domande che bisogna misurare le strategie per il futuro.

Il profilo del sacerdote di domani, come è stato delineato dal vescovo Wanke [nella relazione precedente del simposio accennato sopra; n.d.r.], può offrire indicazioni decisive per l’impostazione dei seminari oggi. A partire da esso, il seminario può essere inteso innanzi tutto come un luogo nel quale i giovani vengono iniziati alla vita del Vangelo. Ma ciò è possibile solo se i responsabili e i seminaristi – pur nel rispetto dei loro ruoli diversi – concorrono a dar vita ad un ambiente che sia un “noi” della fede.

Vorrei sottolineare un aspetto particolarmente importante a questo proposito. Ciò che può unire le persone spesso assai diverse che giungono in seminario, è il Vangelo messo in pratica come Parola di vita. Vivendo concretamente il comandamento nuovo dell’amore scambievole, i candidati imparano a diventare una famiglia di nuovo stile, comunità che è “Chiesa” e che si riunisce intorno al Signore vivente. È di grande aiuto la condivisione periodica delle esperienze che ciascuno fa con il Vangelo. Grazie ad essa gli studenti sperimentano che la comunione nasce dalla condivisione e che è così che si instaura una comunione nel Signore.

Una simile esperienza di fede può liberare quei gruppi di vita, in cui siamo ormai consueti di suddividere il seminario, dalla ristrettezza di un mero vivere-l’uno-accanto-all’altro e mangiare-insieme, dove, per un motivo o per un altro, non avviene invece una condivisione dell’esperienza spirituale.

Non è certo una via di soluzione se i responsabili dei seminari, nella composizione di tali gruppi, si premurano più di tanto di combinare le persone secondo le loro affinità. Se è essenziale, per il presbiterio e per la Chiesa, che sacerdoti di varie sensibilità si integrino e si completino a vicenda, allora occorre che i candidati sin dal seminario apprendano ad imparare l’uno dall’altro e a stimarsi a vicenda nelle loro peculiarità, così come sono.

Nel tempo della Chiesa-comunione e di quella “spiritualità di comunione” di cui parla la Novo millennio ineunte,  l’imparare a vivere con gli altri, il “fare spazio” al fratello (cf NMI 43) e l’esercizio dell’amore scambievole sono obiettivi centrali della formazione seminaristica. Se ciò non accade, si rischia, infatti, di formare degli individualisti che saranno, anche in un domani, insensibili verso gli altri e che hanno smarrito l’attitudine di interessarsi degli altri. Un seminario che sviluppasse un tale potenziale controproducente, finirebbe per autodistruggersi.

È anche per questo che conviene abbinare il soggiorno in seminario con contatti regolari con le parrocchie, un aspetto che del resto torna a vantaggio anche di una vigile attenzione dei seminaristi alle necessità del tempo.

Visto così, il seminario diventa un luogo privilegiato per sperimentare che è bello radunarsi come Chiesa intorno al Signore Risorto e diventa pure un punto d’attrazione per quei giovani che cercano una Chiesa viva.

Il periodo propedeutico

Gli elementi appena esposti – il legame tra riferimento alla prassi ed esperienza di Chiesa fatta insieme, tra religiosità personale e comunione spirituale in piccoli gruppi sotto una guida competente – sono di particolare rilievo per il periodo propedeutico, che precede lo studio della teologia.

È questa un’acquisizione nuova per la Germania, sviluppata dapprima dall’arcidiocesi di Freiburg. Vivere insieme da cristiani, mettere al centro della giornata il Vangelo, prendersi cura gli uni degli altri ed essere solidali, sono, insieme ad un’iniziazione alla preghiera e alla liturgia, i pilastri portanti di questa tappa.

Si tratta, in pratica, di esercizi spirituali nel quotidiano. Se, secondo l’approccio classico, gli esercizi spirituali si svolgono fuori dalla quotidianità, qui vita e spiritualità si compenetrano e diventano punto d’incontro e di unione tra i candidati. Con grande naturalezza si instaura così quella condivisone della vita spirituale che nel seminario di stampo classico a volte poteva apparire forzata, ed apre i giovani a Dio ed agli altri. E se nel seminario non di rado è necessario richiamare a mantenere il contatto con il direttore spirituale, qui questo rapporto cresce nei candidati quasi da sé.

Come essere cristiani oggi? E come esserlo insieme? Come posso interessarmi dell’altro, guardare alla sua vita con co-interesse e parteciparvi? Attraverso gli esercizi nel quotidiano e nella successiva “scuola biblica” di sei settimane che si svolge in una località lontana dalla diocesi, queste domande trovano una risposta quasi da sé.

Ma il periodo preparatorio, come è stato sperimentato a Freiburg e sta per essere introdotto anche in altre diocesi, porta non solo ad apprendere elementi basilari della vita di fede, ma li collega pure con un tirocinio mirato nel campo sempre più importante della diaconia – per tre giorni alla settimana – presso un ospedale, una casa di riposo, un centro di assistenza sociale.

In questo modo trova attuazione concreta quanto Giovanni Paolo II si è auspicato nella Novo millennio ineunte: «Fare della Chiesa la casa e la scuola di comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti…, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese più profonde del mondo» (n. 43).

Incrementare
il legame con la prassi

Un giovane, che aveva fatto la richiesta di poter entrare nel seminario della diocesi di Münster, ha accolto volentieri – come del resto tutti gli altri candidati di questo anno – l’invito a partecipare al periodo propedeutico di sei mesi. Mentre durante le ore in seminario viene iniziato al Credo della Chiesa, alla liturgia e, attraverso gli esercizi nel quotidiano, alla vita spirituale, per tre giorni alla settimana si reca in un ospedale dove assiste i malati, come in un normale servizio civile. Inaspettatamente, egli viene assegnato al reparto di oncologia e già durante le prime settimane del suo cammino verso il sacerdozio è quotidianamente alle prese con la realtà della morte. Mentre tra i formatori sorge il timore che ciò possa essere una sfida troppo grande per lui, il giovane assicura che è proprio nell’incontro col dolore e con la morte che egli si è trovato, quasi senza volerlo, davanti a Dio e che il servizio in quel reparto va molto  bene per lui.

I candidati di oggi hanno bisogno di situazioni “originarie”, nelle quali è la vita stessa a metterli a contatto con Dio e dove lo Spirito di Gesù Cristo li raggiunge quasi da sé. Ciò non accade solo durante il periodo propedeutico. Ho visto verificarsi episodi simili anche in seminaristi che, dopo il diploma teologico, fanno un anno di pratica nelle parrocchie. Questa esperienza, che è stata introdotta otto anni fa nel piano di formazione della nostra diocesi e che ha prolungato il periodo di formazione pastorale, che precede l’ordinazione sacerdotale, a tre anni, ha contribuito in maniera considerevole a dare ai seminaristi una percezione realistica della fede e dei quesiti delle persone di oggi ed ha sprigionato in loro, allo stesso tempo, notevoli risorse spirituali.

L’impatto con la prassi conduce ad una più profonda identificazione con la Chiesa e con il popolo di Dio. Esso offre l’occasione di far esperienza del proprio ruolo di cristiano e, più tardi, di insegnante e catechista nella parrocchia e conferisce così al candidato una nuova sicurezza. Egli si può mettere alla prova. Ha un’esperienza diretta della vita del parroco e dell’équipe pastorale. Comprende immediatamente l’importanza della cooperazione con i diaconi e i laici e si rende conto di quanta competenza portino con sé i vari ministeri non-sacerdotali.

Ma ci sono pure altri vantaggi: l’inserimento nella prassi allena ad un agire autonomo e responsabile, poiché in determinati campi della pastorale i candidati possono già assumere una loro responsabilità. Inoltre, essi hanno modo di rendersi conto dei limiti d’impostazione delle parrocchie odierne che seguono spesso ancora schemi passati. Ne può nascere in loro una riflessione orientata al futuro, che in seguito potrà essere di luce per la loro vita sacerdotale e pastorale. Qui, infine, imparano anche quel giusto rapporto con il mondo che dopo il Concilio è diventato indispensabile, soprattutto per i futuri sacerdoti secolari.

È per questo motivo che mi sembrano utili non soltanto periodi di tirocinio pastorale ma anche il regolare contatto, p.e. durante determinati week-end, con una parrocchia di riferimento.

L’inserimento nel vissuto delle persone di oggi e dei cristiani nelle parrocchie, stimola lo sviluppo della maturità umana e dell’autorealizzazione e risponde così ad una delle dimensioni fondamentali della formazione indicate dalla Pastores dabo vobis: «Occorre l’educazione all’amore per la verità, alla lealtà, al rispetto per ogni persona, al senso della giustizia, alla fedeltà alla parola data, alla vera compassione, alla coerenza e, in particolare, all’equilibrio di giudizio e di comportamento. (…) Di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri, elemento veramente essenziale per chi è chiamato ad essere responsabile di una comunità e ad essere “uomo di comunione”» (n. 43).

Wilfried Hagemann