Spiritualità dell’unità e formazione dei futuri sacerdoti

 

Cristiani prima che sacerdoti

di Hubertus Blaumeiser

 

Durante il simposio di formatori di lingua tedesca che si è tenuto nel dicembre 2002 a Paderborn in Germania1, è stato presentato questo intervento riguardante prospettive con cui i nuovi Movimenti ecclesiali possono contribuire alla formazione sacerdotale. L’autore sin dal 1986 coordina i contatti con seminaristi diocesani dei cinque continenti i quali, in piena unità con i superiori dei loro seminari, s’ispirano, nella loro vita personale e nel loro cammino verso il sacerdozio, alla spiritualità del Movimento dei focolari.

Una spiritualità di comunione

La ristrettezza del tempo disponibile non permette di offrire qui una panoramica di quanto i carismi degli odierni Movimenti ecclesiali e delle nuove Comunità stanno operando – del resto con approcci e metodologie assai diversi tra loro – nel campo della formazione sacerdotale2. Dovrò limitarmi all’esperienza di cui sono testimone in prima persona. Cercherò, tuttavia, di mettere in rilievo alcune indicazioni di fondo che penso siano di validità abbastanza universale.

Premetto che sono circa 5.000 i seminaristi diocesani, sparsi in 370 seminari dei cinque continenti, che attualmente sono in contatto con il Movimento dei focolari.

Ciò che il Movimento condivide con loro è quella “spiritualità di comunione” che è andata delineandosi sin dagli anni ’40 e ’50 e che, nel contesto dello sforzo di mettere in pratica l’ecclesiologia di comunione, ha una sempre più vasta incidenza ecclesiale.

A coltivare questi contatti, in accordo con i responsabili dei rispettivi seminari, sono da un lato sacerdoti diocesani particolarmente esperti in questa spiritualità di comunione. Dall’altro lato sono le occasioni più varie in cui seminaristi vengono spontaneamente a contatto con il Movimento dei focolari.

È significativo il fatto che si tratta di un movimento di stampo principalmente laico. Ma è proprio questo a renderlo arricchente. Quando i futuri sacerdoti si imbattono in giovani che raccontano di come loro vivono concretamente il Vangelo, quando incontrano coniugi che spiegano che cosa significa per loro affrontare con il Cristo crocifisso e risorto le sfide di una vita di famiglia nel nostro tempo e andare “contro corrente”, quando sentono la testimonianza di bambini che cominciano la loro giornata ogni mattina scegliendo un aspetto diverso dell’amore evangelico da mettere in pratica e che in questo modo fanno tante esperienze sorprendenti, ciò rappresenta per essi un indubbio stimolo.

Ma non meno importante è per loro venire a contatto con sacerdoti che condividono concretamente la propria esperienza, mettendo in comune gioie e dolori.

Una particolare opportunità sono poi le “Mariapoli”, vale a dire: gli incontri estivi del Movimento dei focolari, nei quali convengono persone delle più diverse vocazioni e situazioni di vita. In essi i seminaristi trovano come una porzione del popolo di Dio rinnovato dal Vangelo e hanno l’opportunità di sperimentare come la vita della Chiesa si trasforma quando si pone la comunione al centro della propria esistenza e di tutti i rapporti.

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Se dovessi delineare brevemente quali impulsi derivano, per i candidati al sacerdozio, dalla spiritualità di comunione che caratterizza il Movimento dei focolari, indicherei soprattutto quattro punti, nei quali penso si rifletta anche l’esperienza di altri approcci spirituali del nostro tempo.

1. Essere cristiano cioè discepolo
    prima di essere sacerdote

Farsi a tutti gli effetti discepoli di Gesù è forse il compito più impegnativo e comunque quello basilare. Dove il fondamento del battesimo e del sacerdozio battesimale sono ben sviluppati, con quella profonda scelta di Dio che ciò comporta, la formazione al ministero sacerdotale – che costituisce una specificazione della fondamentale chiamata cristiana – viene a poggiare su basi solide.

È questa una presa di coscienza che si va facendo strada un po’ ovunque. Nei più diversi contesti ecclesiali si cerca di premettere alla formazione sacerdotale vera e propria una specie di “scuola del discepolato” e di assicurare che anche la successiva formazione abbia questa dimensione.

I punti 2-4 che ora seguono sono un dispiegamento di questo impulso fondamentale.

2. Vivere la Parola
    prima di annunciarla

Sia l’Evangelii nuntiandi sia la Novo millennio ineunte chiedono di evangelizzare innanzi tutto se stessi per poter essere testimoni credibili del Vangelo (cf EN 45; NMI 40).

Per gli studenti di teologia, abituati come sono a lavorare parecchio di testa, è importante l’accento sulla vita: non solo meditare e studiare la Parola di Dio, bensì viverla. E viverla in modo tale che se ne possa raccontare attraverso testimonianze concrete che parlino di avvenimenti concreti: «Qui ho sperimentato quanto è vero il Vangelo». «Qui Dio mi si è mostrato Padre». «Qui ho ricevuto il “centuplo”». «In questa situazione ho incontrato il Risorto (e non solo: si può incontrare il Risorto)».

Nei nostri contatti proponiamo ai seminaristi di vivere giorno per giorno – per esempio nel corso di una settimana o di un mese – una determinata Parola tratta dalla S. Scrittura, e quindi di lasciare che questa Parola informi il loro pensare ed il loro sentire, le loro decisioni ed i loro comportamenti e li guidi.

E costatiamo quello che normalmente si sperimenta agendo in questo modo: dove la Parola di Dio abita nei cuori e mette radici nella vita vissuta, gli studenti progrediscono molto di più che non attraverso i migliori propositi o il generico impegno di condurre una vita “spirituale”.

A poco a poco si staglia in ciascuno quel profilo interiore che l’apostolo Paolo chiama l’uomo nuovo.

Gli studenti cominciano ad avere non solo un’esperienza interiore, ma via via – in linea con la più genuina tradizione della religione biblica-cristiana – una “storia” personale con Dio e diventano quindi testimoni viventi.

Due esempi

Anni fa venne da me un seminarista per l’accompagnamento spirituale. Egli sapeva stare inginocchiato con grande devozione davanti al Santissimo. Ma non aveva quasi rapporto con la Parola di Dio o, per lo meno, non era abituato a vivere di Essa, e pertanto non aveva neppure una “storia” con Dio. Cominciando a vivere concretamente la Parola, poté scoprire quanto Dio fosse presente non solo nel Sacramento, ma nel quotidiano della sua vita. Il rapporto con Gesù nell’Eucarestia trovò in questo modo una nuova pienezza.

Noi tutti sappiamo che non è facile trattare con i Testimoni di Geova. Un seminarista che abitava con noi, ha trovato un giorno questo semplice e sorprendente espediente: anziché discutere con loro sull’interpretazione dei vari passi biblici, egli ha raccontato loro come viveva questa o quella Parola della Scrittura. La cosa li affascinava e conduceva a conversazioni costruttive.

3. Vivere la comunione
    prima di celebrarla

Difficilmente il modello del sacerdote del futuro potrà essere quello del single. Quello che oggi si chiede è competenza comunionale: occorre aver fatto un’esperienza vera di comunione, per saper costruire, in un domani, comunità vive. Sorprende, sullo sfondo di un’affermazione così ovvia, quanto i seminaristi siano non di rado pessimisti rispetto alla reale possibilità di instaurare una effettiva vita di comunione. Penso che ciò dipenda, fra l’altro, dal fatto che la comunione non si può realizzare né per la mera via delle strutture né con i metodi della dinamica di gruppo, per quanto possa essere utile tener presenti anche queste dimensioni.

Perché la Chiesa possa estrinsecare appieno la sua natura comunionale, occorre una “spiritualità della comunione”, afferma Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte 43. La comunione è, infatti, più che amicizia, perché per sua stessa essenza è universale e multilaterale. E non consiste neppure soltanto in un lavoro ad équipe, ma crea, al di là della funzionalità, una rete di rapporti da persona a persona.

Nella sua dinamica intrinseca essa è partecipazione alla vita della SS. Trinità, superamento delle dialettiche negative e l’instaurarsi di rapporti “trinitari”. Come tale però è un dono di Dio, che nasce da fonti teologali come: l’accoglienza della presenza di Cristo nell’altro, la dimensione pasquale dell’amore cristiano che è sempre un morire ed un risorgere con Cristo, la presenza di Cristo tra le persone che si amano con questa profondità e radicalità (cf Mt 18, 20).

Sempre di nuovo mi rendo conto quanto sia importante per i seminaristi scoprire queste fonti e sperimentare allora che la comunione non rimane un desiderio o un obiettivo, ma diventa realtà raggiungibile qui e adesso.

Un particolare aiuto a questo scopo è quella che Chiara Lubich chiama “l’arte di amare”, così come emerge dal Vangelo e si manifesta nella figura di Cristo3. Ella la tratteggia in alcuni punti essenziali i quali, se tradotti in vita, trasformano il modo di rapportarsi con gli altri.

Laddove, durante il cammino di formazione, ci si cimenta in questa arte d’amare, crescono non solo quella intesa e quella comunione che noi tutti desideriamo, ma compare, di conseguenza, in una nuova luce pure il celibato. Inoltre – come è evidente – un tale esercizio ha notevoli riflessi sull’attitudine alla vita pastorale.

Due esempi

Ad uno studente della Colombia, proveniente da una zona dove la violenza è pane quotidiano, di ritorno nella propria diocesi venne affidata subito una parrocchia. Dopo alcune settimane esplose una bomba in una casa vicina. Questa la reazione del giovane: dopo aver prestato un primo aiuto sul posto dell’accaduto, si recò da tutti i sacerdoti della città. «In una situazione così difficile – disse loro – è importante essere profondamente uniti tra noi ed io desidero impegnarmi da subito in tal senso». Tutti i sacerdoti reagirono in modo assai costruttivo a questo gesto. Dalla comunione rinnovata scaturì pure il sostegno necessario per la famiglia colpita.

Un altro seminarista, durante gli studi si era abituato a esaminare di tanto in tanto i suoi averi e a mettere in circolazione con gli altri quanto aveva di superfluo. Ritornato in patria, fu assegnato ad una parrocchia in cui la gente godeva di un buon tenore di vita. Costatando che gli abitanti della parrocchia a fianco erano piuttosto poveri, propose ai due parroci di mettere in moto un’esperienza di comunione di beni. Si invitarono quindi i parrocchiani benestanti a vedere se non avevano in casa cose superflue che sarebbero potute servire a chi era nel bisogno. Furono raccolti gli oggetti più vari e poi ridistribuiti nell’altra comunità. Per la gente fu l’occasione di fare l’appassionante scoperta che la vita delle prime comunità cristiane si può verificare anche oggi.

4. Come Gesù sacerdote:
    prima essere e poi fare

Se Gesù Cristo è l’unico sacerdote, e se lo è stato innanzi tutto nella sua estrema offerta in croce, e se è proprio lì, nell’impotenza, che egli ha unito Cielo e terra ed ha generato la Chiesa, allora non può non essere che lì il centro dell’esistenza sacerdotale, prima di ogni attività ministeriale.

Vorrei parlarne sotto forma di testimonianza personale. Nonostante tutte le esperienze belle e positive, i momenti decisivi della mia vita in parrocchia erano proprio quelli in cui delusioni e difficoltà mi mettevano con le spalle al muro. Fu in quei momenti che mi trovai in maniera personalissima davanti a colui che è il sacerdote per eccellenza e nel colloquio con lui Crocifisso mi si chiarì in modo nuovo quello che è il cuore della vita sacerdotale. Da simili momenti nasceva ogni volta una nuova libertà interiore, una nuova capacità di amare disinteressatamente e quindi anche una nuova fecondità nel ministero.

Uno dei punti culmine della mia vita di sacerdote era poi quando, dopo intensi anni di ministero parrocchiale, fui nuovamente inviato a studiare. Al contatto quotidiano con le persone si sostituì lo scrittoio. Fu un’esperienza dura. Eppure, proprio questa situazione diventò un dono particolare. Laddove l’attività pastorale era ridotta ai minimi termini, e dove venne quindi meno anche quella gratificazione che essa comporta, si stagliò in modo nuovo il nucleo della chiamata: proprio in questa situazione potevo essere sacerdote, offrire la mia vita senza riserve assieme a Gesù, stare come Giovanni con Maria sotto la croce ed essere “canale”, strumento dello Spirito. Potei comprendere allora più profondamente quanto il vescovo mi aveva detto nell’ordinazione: «Renditi conto di ciò che fai, vivi il mistero che è posto nelle tue mani e sii imitatore del Cristo immolato per noi».

Quando i seminaristi fanno l’esperienza di questa comunanza con il Cristo crocifisso e quando ne fanno il centro della loro vita, vengono come da sé condotti a celebrare il mistero pasquale non soltanto come rito, ma a parteciparvi anche esistenzialmente.

Anche qui un esempio

Uno studente di teologia era venuto da noi per tre mesi. Nel suo seminario era stato una figura guida. Eppure portò con sé anche parecchie domande: era sorto tra lui ed una studentessa un legame particolare. Gli proponemmo di prolungare il soggiorno da noi. Attraverso l’impegno di vivere insieme il Vangelo, maturò in lui una profonda scelta di Dio. Poco dopo il suo rientro in diocesi si ammalò di leucemia.

Ce ne scrisse in questi termini: «Non ho nulla di doloroso e triste da comunicarvi. Per me è la visita del mio Signore che bussa alla porta per entrare. Abbraccio tutto con la gioia che ho sempre provato nelle cose di Dio». I mesi fino alla sua morte mostrarono che non si trattava di parole vuote. Molte persone trovarono grazie a lui un nuovo rapporto con Dio e con la Chiesa. Al suo funerale il vescovo parlò di lui come “chicco di grano”. Penso che in una vita del genere l’essere sacerdote aveva trovato in un certo senso una realizzazione già anticipata.

Le «scuole sacerdotali»
del Movimento dei focolari

Vorrei soffermarmi in conclusione su una particolare realizzazione: la cosiddetta “scuola sacerdotale” nella cittadella di Loppiano, vicino Firenze. Dal 1966 ad oggi oltre 3.000 sacerdoti e seminaristi vi hanno trascorso un periodo che va dai 6 ai 12 mesi. Per desiderio di numerosi vescovi, nel frattempo sono sorti centri analoghi anche per l’Asia, a Tagaytay nelle Filippine, per l’Africa, nelle vicinanze di Nairobi in Kenia, e a San Paolo per il Brasile, sempre nel contesto di cittadelle del Movimento dei focolari, che offrono la possibilità di sperimentare nel quotidiano l’unità e la distinzione delle varie vocazioni del popolo di Dio.

Chi partecipa a queste scuole decide, in accordo con il proprio vescovo, di dedicare alcuni mesi della sua vita ad un allenamento alla vita in comunione. Pilastro portante di questo tirocinio è l’impegno a vivere la Parola di Dio con l’arte di amare.

La giornata si svolge in modo tale che ogni aspetto della vita sia informato dall’amore reciproco. Dopo la meditazione al mattino, i partecipanti lavorano per le diverse necessità della casa, ma anche in piccole aziende della cittadella. L’importante è che in queste attività si concretizzi il vivere con gli altri e per gli altri. Il pomeriggio è dedicato a lezioni e testimonianze a sfondo spirituale, teologico-culturale e pastorale.

Ma tutto in questa scuola è formativo, perché finalizzato alla comunione con Dio e con gli altri, e ciò nella normalità della vita, dai momenti ricreativi alla preparazione dei pasti. Di particolare importanza è la vita in piccoli gruppi che offrono, fra l’altro, lo spazio per un intenso scambio di esperienze sul Vangelo vissuto. Il programma giornaliero, ovviamente, è intervallato da momenti di silenzio e di preghiera personale e culmina nella celebrazione quotidiana dell’Eucarestia.

Di non poco conto è il fatto che durante questo tirocinio viene a mancare quanto spesso diventa inconsapevolmente il contenuto principale della propria vita: lo studio, l’attività pastorale, l’essere parroci. Ciò che durante quei mesi conta è vivere il Vangelo, fino alla comunione dei beni. Dopo l’entusiasmo iniziale – se non si manifestano già in partenza delle difficoltà – questo stile di vita conduce non di rado ad una salutare crisi e provoca, in ogni caso, un chiarimento interiore. Costatiamo come i partecipanti in questo modo colgono più nitidamente la presenza e l’azione di Cristo nella loro vita,  si rendono conto dei talenti che Dio ha dato loro e comprendono con nuova forza e luce ciò che egli vuole da loro.

Sperimentiamo così in che misura una vera vita in comunione sia capace di plasmare le persone e quale cambiamento operi la presenza di Cristo in una comunità che condivide profondamente la vita. Tant’è vero che in questo processo gli stessi responsabili della scuola si trovano ad essere discepoli e beneficiari. Il maestro è Cristo: Cristo, che si rende presente là dove due o più persone si adoperano a mettere in pratica senza riserve la sua Parola, il suo amore (cf Mt 18, 20).

Hubertus Blaumeiser

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1)     Vedi nota 1) a p. 2 di questo numero.

2)     È utile tener presenti i precedenti storici. Lungo la storia del cristianesimo, figure e correnti carismatiche hanno sempre arricchito non solo la vita della Chiesa nel suo insieme, ma hanno pure contribuito alla vita ed alla formazione sacerdotale. Basta pensare all’importanza che la spiritualità di un sant’Ignazio ha avuto per la formazione del clero diocesano, a cominciare dagli esercizi spirituali. O ancora al breviario la cui invenzione si deve, in realtà, agli Ordini mendicanti. Cf l’indagine dettagliata di E. PEPE, La formazione dei presbiteri nella storia della Chiesa, in “Gen’s” 19 (1989) pp. 89-98.

3)     Vedi testo a p. 3 di questo numero.