Quale pedagogia per la pastorale giovanile?

 

Un invito ai giovani: «Non contentatevi di piccole cose»

di Giuseppe Petrocchi

 

Presentiamo, per il suo valore pedagogico, una catechesi del vescovo di Latina in occasione della Giornata mondiale dei giovani durante il Giubileo. Ci sembrano pagine significative per la lucidità di analisi della situazione giovanile, per il rilievo dato agli aspetti positivi e per il taglio progettuale. L’autore offre proposte utili e coraggiose per una pastorale giovanile che sappia guardare in alto.

Stando ad una “diagnosi sociologica”, largamente condivisa dagli esperti, un ampio settore del mondo giovanile contemporaneo è affetto da una sorta di “anemia spirituale” a carattere epidemico. La causa è da individuare nell’influsso patogeno di una cultura materialistica, edonistica, consumistica. Sembra, cioè, che nelle arterie dell’anima e della psiche di molti giovani circoli un “sangue spirituale” povero di risorse vitali, quindi carente di difese immunitarie contro i virus di una mentalità neopagana, invadente ed aggressiva. Detto in termini evangelici, dalle analisi risulta fortemente insufficiente la vitamina “C” (come carità) ed é invece tristemente alta la presenza della tossina “E” (sigla che sta per “egoite”: rattrappimento progressivo dell’io su se stesso).

Sintomi del malessere giovanile

Vorrei provare a raccogliere alcune manifestazioni tipiche di questa “malattia dell’anima”, formulando un elenco dei “10 sintomi principali” riscontrabili nel malessere che colpisce il mondo giovanile odierno.

Vertigini di fronte ai tempi “totali”

Dinanzi a prospettive che impegnano l’intero arco dell’esistenza il giovane sperimenta un senso di vertigine. Si resta abbarbicati all’oggi e dintorni. Di qui una marcata allergia al “per sempre”, la difficoltà a fare scelte definitive e radicali. Appartiene allo stesso atteggiamento di “provvisorietà cronica” la refrattarietà ad impegnarsi su temi sociali di ampio respiro. Tra i giovani – si legge in un recente documento dell’Episcopato italiano – appare «prevalente una cultura rinunciataria e frammentata, ripiegata sul privato.... incapace di grandi progetti e di coraggiose spinte ideali» (ETC, n 61).

Narcisismo radicato

Un narcisismo che genera un’attenzione amplificata su di sé e la tendenza alla autoaffermazione a tutti i costi. Di qui la pretesa del tutto e subito: con uno scarto negativo tra l’esigere (attestato su coefficienti molto alti) e il dare (generalmente modesto e fatto pesare). Non è difficile costatare frequenti casi di “scoliosi psichico-relazionali” dovute al continuo ripiegamento su di sé.

Spiccato rigetto del sacrificio

A tale rigetto si unisce anche una bassa soglia di tolleranza alla sofferenza, avvertita sempre e comunque come un attentato al proprio diritto alla felicità. Risulta conseguente a questo quadro esistenziale la fragilità nell’impatto con i problemi e la tendenza a reagire alle inevitabili frustrazioni o con l’atteggiamento depressivo o con un’irritata ricerca di risarcimento. Diventa facile, pertanto, contrarre la “sindrome dell’incompreso” e il “complesso dell’abbandonico” (tipico di chi si sente “escluso”sempre e comunque dalla stima e dall’affetto delle persone significative).

Culto del divertimento

Questo culto porta a contrarre facilmente la nevrosi dell’effimero, che si esprime nella ricerca di gratificazioni immediate, intense e fatue. Ciò espone ad una dipendenza dai messaggi seduttivi provenienti dall’industria che produce bisogni artificiali. Conformismo e consumismo ne risultano gli inevitabili derivati sociologici. Si riscontra ampiamente un forte tasso di suggestionabilità e di ansiosità pervasiva e di qui la ricerca di facili compensazioni nell’assunzione di sostanze stupefacenti, nell’alcol, negli psicofarmaci, ecc.

Labilità affettiva

Tale labilità è caratterizzata da grandi erogazioni emotive, ma di breve durata. L’umoralità prevalente sembra a “corrente alternata”, con forti oscillazioni tra esaltazione e scoraggiamento, entusiasmo e abbattimento, euforia e delusione. Scarsa è la stabilità del “cuore”. Anche i legami sentimentali risultano, con crescente frequenza, “intermittenti” e cadenzati da un’alta banda di oscillazione.

Pensiero debole

Il pensiero è troppo spesso circoscritto a questioni di portata modesta e condizionato dalla ricerca di interessi e del profitto individuale: frutto anche della difficoltà ad emanciparsi dalla comunicazione per immagini, tipica della comunicazione massmediatica.

Etica solipsistica e relativizzata

Ciò equivale a dire che ciascuno diventa misura del bene e del male. Viene tendenzialmente rifiutata ogni norma proveniente dall’esterno: si assegna il titolo di normalità al trasgressivo. Ciò causa un endemico offuscamento del significato della sessualità umana dovuto ad un dilagante erotismo: risultano facili i cedimenti alla tentazione di porre una gestualità disordinata e connotata da ricerca egoistica di piacere.

Deprivazione della memoria

Si ritiene che la lezione del passato sia poco significativa per affrontare il presente e progettare il futuro. L’esperienza di chi è “nato prima” viene facilmente estromessa, perché considerata “moneta fuori corso” e “medicina ormai scaduta”. Se il passato diventa un tempo esiliato, l’oggi si assolutizza, e il domani appare imprevedibile e minaccioso: di qui la tendenza a drammatizzare gli eventi e ad ingigantire singoli episodi che assumono proporzioni smisurate.

Un senso confuso del sacro

Il sacro subisce il fascino del prodigioso, dell’inedito, dell’alternativo, dell’occulto. La scala valutativa con cui si misura la validità di un’esperienza spirituale troppo spesso è tarata sul sensazionale (capacità di suscitare vibrazioni emotive forti) e sull’intimistico. I percorsi proposti dalle grandi religioni vengono omologati e confusi in un irenismo in cui le identità e le differenze si offuscano: anche il Vangelo diventa uno tra i tanti messaggi offerti negli stands del sacro.

Appartenenza non impegnata

«Appartenenza solo parziale e condizionata alla vita e alla missione della Chiesa» (PdV, n. 8), che induce a vivere una religiosità «desacralizzata, soggettiva, che assume funzione consolatoria e perde la funzione di bussola nell’orientare le scelte esistenziali» (Avvenire, 27 maggio 1999).

Risorse straordinarie

Sarebbe, questa, una “cartella clinica” desolante se non fosse equilibrata da numerosi fattori positivi, che sono indicatori non solo di una salute non irreversibilmente compromessa, ma esprimono risorse capaci di produrre straordinari sviluppi spirituali, sociali e culturali. La lista completa degli “aspetti favorevoli”, accertabili nei giovani di oggi, sarebbe grazie a Dio molto lunga.

Lascio a voi il compito di tessere l’elogio di questa generazione. Mi limito solo ad alcuni accenni telegrafici: un’anima aperta alla ricerca religiosa, non più imbrigliata nei condizionamenti ideologici; attenzione moltiplicata ai valori della persona; sete di autentica libertà; apertura incondizionata al dialogo; centralità assegnata all’amicizia; importanza attribuita alla solidarietà e alla giustizia; bisogno di trasparenza e di autenticità; impegno per la pace; sensibilità ai temi della mondialità e della comunicazione globale, consentita anche dalle moderne tecnologie informatiche, nuova considerazione della dignità e della missione della donna; sano apprezzamento del valore della corporeità.

Con questi brevi tratti descrittivi intendo sottrarre il discorso ad ogni pessimismo cupo e aprirlo sul versante della speranza, che è quello che ci prepariamo ad esplorare insieme.

Una proposta ardita: la santità

In “quest’ora magnifica e drammatica della storia” (ChL, n. 3), proprio dentro un tempo percorso da luci intense e da ombre dolorose, risuona, per i giovani, l’invito forte e insistente dell’Onnipotente: «Siate santi perché io sono santo» (Lv 11, 44). È un imperativo che Gesù ripresenta nel Vangelo, con un’assolutezza che lascia stupefatti e quasi smarriti: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 48). Proprio così: il Signore chiama i giovani di questo millennio a scalare le vette ardite e splendide della santità, fino a raggiungere “la perfezione della carità” (cfr. ChL, n. 16). Di ciascuno di voi si può dire che: «Gesù fissatolo lo amò» (Mc 10, 21). Colui che vi ha creato e conosce le fibre più nascoste del vostro cuore, ha un progetto meraviglioso che può realizzare solo se incontra il vostro “sì”. A voi per primi è rivolto l’invito stupendo e sconvolgente: «Vieni e seguimi» (cfr. Mc 1, 16-20).

Certo: se innalziamo lo sguardo fino ai vertici del monte santo e guardiamo con onesta umiltà la nostra condizione umana, afflitta da tanti malanni spirituali e psicologici, viene da dire – come purtroppo fanno tanti –: «Me ne resto accampato in pianura, alle falde del monte. L’ascesa su quelle pendici scoscese non fa per me: è una impresa da campioni; io al massimo sono in grado di spingermi fino alle propaggini di questa impervia altura: ma non più in su».

Sono pensieri da perdenti e da increduli: non tengono conto del fatto che da quando Gesù è morto e risorto la parola “impossibile” è stata cancellata dal dizionario del credente. Nella pasqua del Signore le nostre infermità sono state assunte e guarite e ci viene comunicata una vita nuova che ci rende davvero figli di Dio (cfr. 1Gv 3,1). Chi pensa “in negativo” e da rinunciatario non pensa male solo di se stesso, pensa male di Dio, perché non si fida dell’amore del Padre, che non chiede mai qualcosa senza aver donato prima la forza per farla. Marciando in cordata con Gesù e facendosi accompagnare da amici veri si possono percorrere gli ardui sentieri della perfezione cristiana, fino ad arrivare alla cima, dove sono giunti i grandi santi: anche loro, quando sono partiti, erano come noi e da lassù ci incitano a diventare come loro.

Il segreto? Considerare ogni istante un gradino da salire, facendo la volontà di Dio. Così tutti i giorni, ricominciando sempre, anche quando ci si accorge di aver sbagliato. Ciò che conta è non alzare mai bandiera bianca, perché abbiamo creduto all’Amore (cfr. 1Gv 4, 16).

Sant’Ireneo usa un’immagine ardita e commovente: dice che il Figlio e lo Spirito Santo sono le due “mani” del Padre, con le quali egli ci accarezza, ci abbraccia, ci sostiene e ci solleva verso di sé. (cfr. Adv. Haer. IV, 4). Ciò che conta, dunque, è farsi amare da Dio-Trinità e riamare con lo stesso amore che è stato effuso nei nostri cuori (cfr. Rm 5,1).

Permettetemi di confidarvi alcune idee, che proprio per il lungo contatto con tanti giovani si sono radicate dentro di me.

La santità ha dei tratti comuni e ritornanti (il DNA della perfezione cristiana ha sempre come codice genetico di base la carità), ma presenta anche un volto che assume fisionomie diverse in ogni epoca della Chiesa.

Pensate alla grande stagione del monachesimo; alla comparsa entusiasmante degli Ordini mendicanti; alle meraviglie compiute da Congregazioni religiose e da laici nell’opera dell’evangelizzazione, nell’assistenza ai poveri, nell’istruzione di schiere innumerevoli di ragazzi poveri, nel soccorso reso ai malati... Non basterebbe una enciclopedia per ripercorrere i sentieri tracciati dallo Spirito nella storia della Chiesa.

La mia convinzione è che la santità del nuovo millennio avrà una “figura eminentemente comunitaria”.

Una santità-Chiesa

Lo Spirito ci convoca “in uno” perché occorre essere Chiesa per farsi santi. Da soli non si va lontano: sulle vie di Dio si avanza insieme, come «un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (S. Cipriano, De orat. dom., 23). Ma è anche vero che bisogna essere santi per essere Chiesa. Così è scritto in un recente documento del magistero: «I santi e le sante sempre sono stati fonte e origine di rinnovamento nelle più difficili circostanze di tutta la storia della Chiesa. Oggi abbiamo un grandissimo bisogno di santi, che dobbiamo implorare da Dio con assiduità» (Sinodo dei Vescovi 1985, Relatio finalis, II, A, 4). Ai giovani di tutti i tempi i Padri del Concilio hanno scritto con speranza profetica: «La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore. Essa è la vera giovinezza del mondo (...), guardatela e troverete in lei il volto di Cristo» (Vaticano II, Messaggio ai giovani, 8/12/1965).

Comprendete allora perché se si dovesse istituire l’Università dei Santi, io vi suggerirei di iscrivervi in massa al corso di laurea in “unità trinitaria” (così si diventa “dottori della Chiesa”!) e conseguire la specializzazione in “comunione”. Sì, oggi più che mai occorrono persone esperte in unità, affinché la Chiesa possa risplendere sempre più come “icona” viva della Trinità e annunciare con efficacia la buona novella, perché «solo una Chiesa comunione può essere soggetto credibile dell’evangelizzazione» (ETC, n. 27)

E una santità così è una santità di serie A: infatti la carità che genera la comunione è la sintesi di tutte le virtù e la nemica di tutti i vizi. Insieme ai santi-di-comunione vi invito a riscoprire la cornunione-dei-santi, che occupa un posto centrale nella vita e nella missione della Chiesa. Nessuno può considerarsi un “compartimento stagno”: tutti, volenti o no, siamo collegati come vasi comunicanti. E questa misteriosa osmosi spirituale non agisce solo tra noi che camminiamo nel tempo ma risulta ancora più attiva con quelli che hanno già varcato la soglia dell’eternità. Per questo «si è potuto dire che “ogni anima che si eleva, eleva il mondo”. A questa legge dell’ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un’anima che si abbassa per il peccato, abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero» (Riconciliazione e penitenza, n. 16).

Contemplativi nel mondo

Ecco un’altra condizione irrinunciabile per essere i santi del nuovo millennio: mantenere la più alta unione con Dio-Trinità pur restando immersi nelle vicende del mondo. Detto in altre parole: dovete essere amici di casa nella dimora del Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo. «Giovani di ogni continente – vi esorta il Papa –, siate contemplativi ed amanti della preghiera; coerenti con la vostra fede e generosi nel servizio ai fratelli, membra attive della Chiesa ed artefici di pace» (GMG XV, n. 3).

In una cultura che abbonda di “voci fatue” la vostra esistenza deve risuonare come un’eco limpida e appassionata del Verbo-fatto-uomo. In un mondo che, pur avvertendo la nostalgia dell’Assoluto, sembra disperso nel deserto dell’effimero, voi dovete essere anime-specchio che, riflettendo il divino, consentono, anche ad occhi non più abituati a guardare in Alto, di scoprire il volto del Padre che è nei cieli.

Forti della croce

Si sa che «il cammino che conduce alla santità comporta l’accettazione del combattimento spirituale» (VC, n. 38). La Scrittura lo dice a note chiare: chi vuole entrare nel regno di Dio deve attraversare molte tribolazioni (cfr. At 14, 22). Ma l’annuncio della croce non vi fa paura anzi rafforza la vostra speranza, perché avete imparato a fare Pasqua: ogni giorno e insieme. «La croce, che sembra innalzarsi da terra, in realtà pende dal cielo, come abbraccio divino che stringe l’universo» (GMG XV, n. 2): tutto vince, tutto guarisce, tutto trasforma. E su ogni amore-crocifisso si accende la luce della risurrezione. Da questa fonte misteriosa scaturisce la forza che vi rende capaci di vincere il mondo (cfr 1Gv 2, 14) e di offrire la testimonianza della comunione. Proprio il Papa proclama davanti al mondo, che «la croce cammina con i giovani e i giovani camminano con la croce» (GMG XV, n. 1).

Portatori della gioia

Nella nostra epoca c’è una sovrapproduzione di occasioni di piacere, ma si registra una drammatica carestia di gioia. Essa non può essere comperata nei supermercati della società dei consumi. E non può che essere così. La gioia, infatti, è un bene spirituale: non scaturisce dalla semplice soddisfazione dei propri desideri, ma fiorisce dalla carità, cioè dall’amore accolto e donato secondo la volontà di Dio. Ecco perché nella civiltà tecnologica «il denaro, le comodità, l’igiene, la sicurezza materiale spesso non mancano; e tuttavia la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la porzione di molti» (Paolo VI, La gioia cristiana, n. 1).

Purtroppo da tempo è in atto una grande mistificazione: hanno pubblicizzato come “cava della gioia” la moderna discarica di idee e di comportamenti neopagani. E tanti giovani restano ipnotizzati da questi surrogati di felicità: pensano di rifornirsi di gioia, invece trovano solo delusione e noia.

La gioia vera, quella che il mondo non può dare, si raccoglie solo dall’albero della croce, piantato sul terreno della carità. Fiorisce, dunque, e fruttifica abbondante nei campi del Vangelo vissuto. È «gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio» (Paolo VI, La gioia cristiana, n. 1).

In mezzo a tanti giovani sazi ma con l’animo spento, voi siete inviati come i testimoni credibili e contagiosi del “di più” di Dio. Gioia e santità sono termini reversibili e direttamente proporzionali: quanto più cresce l’uno, tanto più aumenta l’altro. Per la nuova evangelizzazione del mondo giovanile occorre un’effusione di gioia: voi siete gli apostoli della letizia dell’Altissimo, come grazia ricevuta e donata. Sta scritto infatti: la gioia di Dio è la nostra forza (cfr. Ne 8, 10).

Santità missionaria

Di nuovo diamo la parola al Papa: «Nel nostro tempo, secolarizzato e pur affascinato dalla ricerca del sacro, c’è particolare bisogno di santi che, vivendo intensamente il primato di Dio nella loro esistenza, ne rendano percepibile la presenza amorosa e provvida. L’umanità ha bisogno... di giovani che abbiano scoperto personalmente Cristo e ne siano restati affascinati così da appassionare i loro coetanei alla causa del Vangelo». Sono persuaso che quando lo Spirito del Risorto ha pensato ad un lievito evangelico da spargere tra le nuove generazioni, per fermentarle con la potenza della parola e della grazia, ha pensato proprio a voi. Non abbiate paura di essere giovani contro-corrente. Sono i profeti i veri costruttori di un mondo nuovo: perché solo chi ha il coraggio di cambiarsi può cambiare il mondo in cui vive.

Andate in mezzo ai vostri compagni, e gridatelo con coraggio: «Non mettete la vostra vita in garage» (cfr. Raoul Follereau, Il libro d’amore, A.I.F.O. 1999, p. 77). Annunciate loro non un Dio lontano, conosciuto solo “per sentito dire”, ma il Verbo della vita, che si è fatto carne ed ha posto tra noi la sua tenda. Lui e lui solo ha il potere di renderci figli di Dio e uomini tutti interi. Infatti «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa anch’egli più uomo» (GS, 41). Chi vuole può incontrarlo: anche oggi. Dove? Nella comunità ecclesiale, di cui voi, a titolo speciale, siete il volto simpatico e il sorriso fraterno. Fatevi eco dello stile missionario, antico e sempre nuovo, dell’apostolo Giovanni, che proclamava, con trascinante convinzione: «Ciò che era fin da principio, il Verbo della vita.... quello che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi»(1Gv 1, 2-3).

Atleti dello spirito

Santi non ci s’improvvisa. Anche la muscolatura dell’anima, come quella del corpo, ha bisogno di palestra: e non di un allenamento occasionale, ma di un esercizio continuo, fatto di ascolto della Parola, di sacramenti vissuti con responsabile fede e regolare frequenza (specie la confessione e l’eucaristia), di preghiera profonda e quotidiana, di vita interiore curata anche con l’aiuto di una guida esperta, di amore alla croce abbracciata con gioia, di tanta pratica nella carità scambievole. Volete un indirizzo-sintesi dove trovare in sovrabbondanza ogni opportunità di crescita spirituale? Eccolo: mettetevi alla scuola di Maria. Lei, modello dei credenti, vi insegnerà l’arte di amare Dio e i fratelli. E sarà a vostro fianco, sempre, con l’affetto e la sollecitudine di una mamma premurosa, fino a rendervi santi e immacolati nella carità (Ef 1, 4).

Pellegrini nel tempo,
protesi verso l’eterno

Non permettete a «una civiltà commerciale, edonistica, materialistica che tenta ancora di spacciarsi come portatrice di avvenire» (Paolo VI, ibid, n. 6) di murare i vostri orizzonti dentro le pareti anguste di una temporalità asfissiante, perché chiusa in se stessa. Mantenete la mente e il cuore spalancati sull’eternità. Solo chi mantiene la bussola dell’anima orientata alle cose che non passano può impegnarsi a edificare quaggiù la civiltà dell’amore. Voi avete «una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi cose grandi» (Vita consecrata , n. 110). Siete le avanguardie della Chiesa, che marcia, nel tempo, verso la Gerusalemme celeste: voi costituite la «prossima tappa storica del popolo di Dio» (Paolo VI, ibid., n. 6).

Camminate sereni, ponendo nel Signore la vostra fiducia, e non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello della carità vicendevole (cfr. Rm 13, 8), poiché «l’amore è l’unico passaporto valido per l’eternità» (François Pavreau). Come vescovo guardo con ferma speranza al futuro. Mi chiedete perché? Innanzitutto perché confido nella Provvidenza, che sempre agisce nella storia. Ma c’è anche un’altra ragione, che mi consente di guardare al domani con fondato ottimismo. Volete sapere quale? Perché il domani siete voi.

Giuseppe Petrocchi