Una proposta che va al cuore dell’educazione

 

Il rapporto educativo

di Giuseppe Milan

 

Il presente articolo, il cui autore è docente universitario di pedagogia, costituisce un commento fatto con competenza al tema di Chiara Lubich riportato all’inizio di questo numero. Essendo i sacerdoti, per la loro stessa missione, degli educatori nei vari ambiti del ministero, pensiamo che questo contributo – nella sua brevità e chiarezza – potrà essere loro utile.

La problematicità del rapporto

La riflessione pedagogica ha sempre assegnato grande importanza al rapporto. Il processo educativo, infatti, si evolve attraverso un gioco di relazioni complesso, che tuttavia possiamo semplificare considerandone gli elementi essenziali: esso si esplica come rapporto interpersonale io-tu aperto al mondo. Questo gioco relazionale è chiamato a sviluppare in tutte le loro potenzialità i soggetti che lo costituiscono: è evidente, in primo luogo, che l’educando e l’educatore possono umanizzarsi sempre più attraverso la reciprocità di un incontro che consente a ciascuno di raggiungere traguardi di personalizzazione e di comunione sempre più elevati; ma è pure evidente che tale incontro è aperto al mondo, “per dargli un nome”1. Dare “un nome al mondo” significa rapportarsi al sapere, alla storia, al patrimonio culturale, alla più ampia società, all’umanità intera nella sua realtà e nella sua vocazione; significa incontrare tutto questo come tu, come interlocutore da ascoltare, da conoscere, da comprendere, da amare e, per molti versi, da costruire: un interlocutore, oltretutto, da cui farsi costruire. Ecco che si delinea, allora, l’autentica funzione dell’educazione come “rapporto finalizzato”, guidato da una chiara intenzionalità a realizzare nel modo migliore l’evento educativo, che è problematico e obbliga alla ricerca, perché sempre contraddistinto da dimensioni per certi versi opposte (come libertà/autorità, individuo/società ecc.): non è facile, nella concretezza dell’esperienza educativa, evitare quegli errori che derivano dall’annullamento della suddetta problematicità, cioè dall’assolutizzazione di un elemento a scapito dell’altro (ad es. enfatizzare l’autorità, negando la libertà, o viceversa); non è facile mettere in giusto rapporto quegli elementi, vedendoli come “polarità pedagogiche” chiamate a dialogare, a sostenersi reciprocamente, e non come antinomie.

Per impostare coerentemente il rapporto in educazione, è necessario trovare risposte pertinenti attorno a tre questioni fondamentali: “chi è l’homo educandus?”, “a cosa deve tendere?”, “quali mezzi possono aiutarlo nel suo itinerario?”. Questa tripartizione è imposta dalla stessa realtà dell’educazione, la quale è – come Chiara stessa la definisce nel suo tema – «l’itinerario che il soggetto educando (individuo o comunità) compie, con l’aiuto dell’ educatore (degli educatori), verso un dover essere, un traguardo, un fine che si ritiene valido per l’essere umano e per l’umanità».

La nostra proposta dovrebbe pertanto prevedere: 1) un’antropologia; 2) una teleologia pedagogica (i fini dell’educazione); 3) una metodologia (come? quale strada utilizzare? con quali strumenti?).

L’essenziale della proposta

Una risposta, espressa in estrema sintesi, potrebbe definire nel modo seguente l’articolazione di fondo del rapporto educativo:

1) Il soggetto dell’educazione (antropologia pedagogica) è Gesù abbandonato, il paradigma di qualsiasi carenza sul piano educativo, di qualsiasi “perché?” che necessiti di una risposta; paradigma, nel contempo, dell’amore che tutto dona: la vita, la verità, il sapere, la conoscenza. Per usare ancora le parole di Chiara, Egli ci indica “il limite senza limiti di tale bisogno e, nel contempo, il limite senza limiti della nostra responsabilità nell’educazione”. Gesù abbandonato, perciò, è il punto di partenza, la motivazione prima di ogni relazione educativa.

2) L’itinerario, il movimento che si realizza attraverso il rapporto educativo, è il passaggio, l’evento pasquale che conduce (teleologia pedagogica) verso la finalità “uomo nuovo”: Gesù in mezzo, la vita dell’unità, la Trinità vissuta tra di noi, nella prospettiva del “che tutti siano uno”.

3) Come fare, nel rapporto educativo, per realizzare tale passaggio? Quale metodologia applicare? Potremmo qui esemplificare a lungo, entrando nei dettagli dell’esperienza di vita comunitaria, anche quella del Movimento dei focolari, che racchiude una miniera di accorgimenti pedagogici per rendere sempre più efficace il viaggio educativo. Un efficacissimo sunto metodologico è espresso nei vari punti del sempre attuale volumetto di Chiara La Carità come Ideale2 (idee-chiave per la relazione interpersonale e per la vita comunitaria); anche la “vita degli aspetti”3 indica una suggestiva e organica proposta su come realizzare un cammino educativo integrale in ogni ambito dell’ attività umana. Nel tema di Washington, Chiara propone la “prassi spirituale ed educativa dell’amore reciproco” e prospetta come modello Gesù, “il testimone più autentico e più esigente di cosa significhi essere educatori”: Egli “nella sua esperienza terrena, ha vissuto con intensità eccelsa la relazione interpersonale con gli altri”. E Chiara menziona alcuni atteggiamenti interpersonali praticati da Gesù, decisivi per ogni pedagogia, ai quali ora vogliamo accennare brevemente4.

Gli atteggiamenti dell’educatore

1. Accettazione

Accettare l’altro come “tu”, come soggetto, cogliendo e apprezzando la necessaria “distanza” che separa e relaziona allo stesso tempo, è indispensabile requisito del rapporto educativo.

Accettazione: dal latino accipio, accipere, vuol dire contenere l’altro e prenderlo con sé nella sua diversità; l’educatore accoglie, contiene e “concepisce” (la stessa derivazione di accipere) il tu nella sua unicità (come l’artista, che accoglie una forma nuova, unica, e concepisce l’opera d’arte originale).

Tale disponibilità accettante da parte dell’educatore permette al soggetto in formazione di avvertire l’esperienza del rapporto autentico e attraverso questa esperienza egli stesso percepisce più chiaramente la propria unicità, riconosce se stesso come soggetto e si fa presente nel gioco della reciprocità.

2. Empatia

Il rapporto educativo autentico si fonda anche sull’unicità e irripetibilità del soggetto stesso. È un “farsi uno” che unifica mentre rispetta e valorizza il senso della distinzione. Tale capacità di mettersi al posto dell’altro, di condividere il suo mondo pur restando se stessi, è chiamata empatia ed è una forma di intuizione (andare al tu).

L’educatore, per fare emergere il tu, deve spingersi verso questa comprensione dall’interno, che è immaginazione, “fantasia reale” (Martin Buber), “chiaroveggenza” (Vicktor Frankl): mettersi al posto dell’altro e immaginare ciò che ancora non è ma può diventare.

Tale atteggiamento, pertanto, non va applicato soltanto alla condizione presente del soggetto, ma è anche aperto al futuro. Educare, infatti, significa anche preparare con chiaroveggenza il domani.

3. Lotta educativa

Per educare non basta comprendere, non basta empatizzare, non basta prevedere. Il passo ulteriore che l’educatore deve compiere è la lotta educativa: un’immagine metaforica che evoca l’impegno, la fatica, il prezzo, le sconfitte e le vittorie che la dinamica educativa implica per chi ne è coinvolto. Non ci riferiamo certo ad un’azione distruttiva, come normalmente si intende nel parlare di lotta: qui usiamo il concetto in senso positivo, attribuendogli il significato di un complesso e dinamico rapportarsi al soggetto educativo per promuoverne le risorse, per potenziarne la personalità, per aiutarlo a diventare ciò che può e deve diventare. La “lotta educativa” è quindi l’appassionato e sempre nuovo dialogo educatore-educando attraverso il quale il primo aiuta il secondo a conformarsi – senza mai precludere spazi alla reciprocità e alla creatività – a quanto la “fantasia reale” consente di intravedere.

La lotta educativa deve essere lotta con l’altro, perché non può prescindere dalla necessità di coinvolgerlo come soggetto in ciò che gli viene richiesto; lotta per l’altro, perché proprio lui è il fine dell’educazione; anche, all’occorrenza, lotta contro di lui, contro gli aspetti inadeguati del suo comportamento (passività, incoerenza, mancanza di impegno, egocentrismo, conformismo ecc.), che obbligano l’educatore a dire “non sono d’accordo con te”, “hai torto”, “puoi fare meglio” e ad agire di conseguenza. La lotta va posta come insostituibile ingrediente della prassi educativa, la quale in vari modi – come afferma Chiara – è anche “educazione al difficile”, proprio perché ogni essere umano ha bisogno di qualcuno che lo solleciti a migliorare.

Abbiamo così percorso un itinerario tra gli atteggiamenti dell’educatore, il quale, spinto dalla speranza – che, come energia propulsiva, orienta e fa amare le finalità cui tendere (vedere Gesù nell’altro) – deve esserne “testimone”, portandoli come “testo interno”. Solo così il soggetto educativo può acquisire vera fiducia nell’educatore e in se stesso e rendere meno accidentata la propria ricerca del senso.

Si tratta di modalità relazionali che non ammettono limiti di spazio, di tempo, di condizione personale e sociale: sempre, per primi, con continuità, in qualsiasi ambito, con ogni soggetto, in qualunque tappa della sua evoluzione.

Chiara nel suo tema ha utilizzato un concetto che ci sembra particolarmente suggestivo: l’itinerario pedagogico è “andirivieni” tra l’abbandono e la Trinità.

In conclusione, crediamo che il fondamento autentico del rapporto pedagogico possa essere intravisto proprio in questo andirivieni che lega strettamente la realtà – così intrisa di bisogni, di sofferenza, di “perché”– e l’utopia (che per noi è utopia-realtà: Dio tra noi); un andirivieni di cui l’educatore può essere primo interprete e testimone nel cammino dell’educazione, che si configura come incontro dialogico chiamato ad una piena reciprocità illuminata dall’Amore.

Giuseppe Milan

 

1.         P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1971, p. 107.

2.         In Scritti spirituali/3. Tutti uno, Città Nuova Ed., Roma 19963, pp. 73-115.

3          Cf AA.VV. Come un arcobaleno, gli “aspetti” nel movimento dei focolari, ad uso interno, Roma 1999.

4.         Per un possibile approfondimento di questa tematica rinviamo a: G. Milan, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova Ed., Roma 2001 (in particola Parte terza: Gli atteggiamenti dell’educatore).