«Sarò Io il tuo maestro»
di
Igino Giordani
Siamo
negli anni 1939-1941, ai primi albori del Movimento dei focolari. Chiara Lubich
insegna in una scuola elementare, prima in un paesino di montagna e poi a
Trento nell’Opera Serafica dei Padri Cappuccini, che accoglie bambini orfani.
Quale il suo metodo? Ce lo illustra brevemente l’autore in questo dattiloscritto
che, pur rispecchiando lo stile del suo tempo, ci sembra interessante per la
sua profondità e attualità.
Dopo che ebbe
conseguito la licenza magistrale (nel 1938) Chiara s’accinse a proseguire gli
studi, mirando alla filosofia. Ma i suoi genitori erano poveri. Partecipò
allora ad un concorso per 33 posti gratuiti all’Università Cattolica, pensando
che là avrebbe appagato il suo sogno: ma fu ascritta al trenta quattresimo
posto, e cioè per un punto fallì. Donde dolore grande.
Il Signore parlò alla sua anima: «Sarò Io il tuo Maestro».
Ed ella intanto fece la maestra elementare, in un villaggio remoto, di montagna, a Castello di Ossana, in Val di Sole, vicino al passo del Tonale dove, nel 1938, le fu affidato l’insegnamento di tutte le quattro classi elementari miste. Appena giunta al paesino si mise a disposizione della parrocchia per servire in qualsiasi ramo di attività. Il parroco fu sorpreso e felice d’una maestra che si offriva con tale disinteresse.
La
pedagogia del Vangelo
Una ragazza quindicenne, Elena Moli gnoni – poi focolarina, sorella del focolarino Giacomo – fu presa dal fascino di quella maestra che ogni giorno andava in chiesa; e la seguì più volte per ve dere come pregava, poiché pregava in un modo nuovo.
Elena era buona cristiana, ma non aveva mai pensato che si potesse essere rapiti così. Pregò Dio che gliela facesse conoscere. E fu il parroco ad avvicinarla a Silvia1 con l’intento di farla coltivare da lei e poi, all’occorrenza, di farle fare le veci della mae strina.
Nell’incontro Elena fu sorpresa della familiarità onde fu accolta: appena entrò nella stanza Sil via la prese sotto braccio. Mai una maestra aveva trattato così una scolara. Silvia s’interessò della famiglia e di tutti i suoi casi, e la fece parlare a lungo, togliendole ogni impaccio, anche l’impaccio del dialetto piuttosto duro. Elena uscì con la gioia in seno; e ricordò il proverbio: “Chi ha trovato un amico ha trovato un tesoro”.
Al pari di Elena tante altre ragazze del popolo vennero per conoscere la Lubich: soprattutto per ritrarne la gioia inesprimibile della sua vista, del la sua voce. La voce, con cui parlava loro di Dio, di Gesù Eucarestia, e dei misteri della fede, colpiva soprattutto per la limpidezza e la semplicità onde avvicinava l’Eterno agli uomini. Alle più vicine e anche a ragazzi maturi parlava altresì del sacramento del matrimonio e della bellezza di esso.
Il parroco s’ammalò, a un certo momento, di peritonite. Fece chiamare Silvia anziché il medico. Ma Silvia lo convinse a far venire subito il medico, da cui fu fatto trasportare in ospedale. Assente il parroco, la Lubich, per ordine di lui, fece in chiesa la novena dello Spirito Santo: e tutti erano affasci nati da quella vocina, densa di quella pietà.
Mantenere
vivi i rapporti
anche da lontano
Per l’anno scolastico 1940-41 fu invitata a insegnare a Cognola (vicino a Trento) all’Opera Serafica. E passò a Trento, ma si tenne legata alle giovinette di Castel lo con lettere quasi settimanali; lettere che esse la sera, al ritorno dal lavoro duro dei campi, leggevano insieme attingendovi, nell’unità, una vita nuova. Nelle lettere ella insegnava a far meditazione, a colti vare la purezza, la fortezza, a servire il prossimo… E narrava dei propri alunni, nei quali stava suscitando una partecipazione continua alla vita della Chiesa, che allora era partecipazione alle sofferenze dei cattolici polacchi.
Insegnava soprattutto a vivere: la religione è fatta per la vita, non per la morte. L’antireligio ne, quei giorni, preparava la sua missione: la crescita dei cimiteri; e per riuscirvi combatteva il cri stianesimo.
Quando era maestra elementare, Silvia aveva già bene appreso e già insegnava questa alternativa. Praticamente, mostrava l’essenza della dottrina.
“Farsi
uno”
La scuola di lei consisteva anzitutto nell’a mare i discepoli, e per amore, farsi uguale a loro. Eguale, non per gioco ma per immedesimazione d’anime. E perciò in classe, là nelle povere aule del collegio, ella sedeva ora a un banco, ora a un altro, accanto agli scolaretti di prima elementare, che finivano per considerarla una di loro, pur amandola come superiore a loro. Ché ad essi dava Gesù: e dava la vita. Così si faceva una con loro e le veniva spontaneo di sedersi sempre in mezzo ad essi. Impostava l’insegnamento sul farsi uno coi piccoli.
Educare
alla vita con la vita
Sceglieva, d’accordo, ogni settimana, un mot to dell’Evangelo; e lo applicava con loro. E ne parlava di giorno in giorno, dicendo le sue esperienze, anche le deficienze, a cui essi, presi da quella inge nuità e fiducia, aggiungevano le proprie: comunione di anime bambine che ella suggellava ricordando che Gesù perdona sempre. Non le forzava nell’istruzione religiosa: amava la loro libertà e voleva sempre la loro libera scelta. Dio così non era imposto a loro: nasceva dal loro cuore. Erano educati alla vita con la vita.
Così, entrando in aula, modesta, raccolta, senza por mente a chi faceva chiasso e monellerie, ella andava dritta alla cattedra: e via via che passava, calavano le voci, si faceva silenzio: entrava il sa cro e lo avvertivano.
E così parlava loro sottovoce e ogni cosa fa ceva con garbo, così che le loro anime si conformavano a lei e si placavano: e la disciplina diveniva un ef fetto della riverenza, l’aura della convivenza con Dio, dove non si udiva una voce, se ella non la move va.
In una stessa aula si contenevano due scolaresche: una di prima elementare e una di prima media. Ma ella sapeva “farsi una” con i bambini che iniziavano e “una” con gli adolescenti che sbocciavano: e quando quelli apprendevano, questi contemplavano o facevano i compiti, in silenzio, con aria protettiva; e quando questi leggevano o apprendevano, i piccoli guardavano o facevano i compiti, con un’aria di ammi razione.
La
didattica di Gesù:
amare ognuno come se stesso
Era già solo il suo sguardo e tutto il suo tratto a farli buoni e disciplinati. Ché ella applicava il metodo didattico di Gesù: si santificava per santificarli, amandoli ognuno come se stessa. Ché la lezione significava per lei lo svolgimento della vo lontà di Dio: quindi un atto sacro. E vi si preparava con cura diligente, prestabilendone lo svolgimento minuto per minuto, sì che nulla fosse affidato al caso: uno sbaglio – capiva – avrebbe potuto sciupare l’in canto e compromettere l’intera lezione.
E per questo la lezione era sempre nuova e ricca di attrattive e diveniva gioco perché vita.
Se la lezione era un gioco, i pezzi del gioco erano i bambini stessi. La lezione era fatta da loro, per loro, sotto la guida amicale di lei, fusa con lo ro. Per spiegare le piante, ad esempio, e il loro comportamento, non si serviva di figure, ma conduceva gli alunni in campagna, e faceva vedere e amare i pini e le margherite, i monti e le acque. Se doveva spiegare la geografia non potendoli condurre, come ella avrebbe voluto, sulle isole e nei continenti, impersonava fiumi e paesi in alunni e li metteva in movimento coreograficamente.
E quando, chinato il capo sul banco, nel pomeriggio, per due ore i bimbi dormivano, ella passava, in punta di piedi, in mezzo a loro, come angelo, recitando il rosario: e se la vedevano, ricordavano il Paradiso; e se lei ne vedeva uno sveglio, gli reclinava, con una carezza, il capo sul banco; e poi a uno a uno li affidava a Gesù. Li copriva d’amore anche per l’avvenire, quando orfani, senza affetti, sarebbero entrati nella vita.
Igino Giordani
Il testo è
tratto dal dattiloscritto “Storia del Movimento dei focolari” di Igino
Giordani, Rocca di Papa, maggio 1977, pp.15-19.