È possibile una casa povera e bella?

«A volte mi domando come conciliare una casa bella con la povertà evangelica. Di fronte a tanta miseria che c’è nel mondo possiamo permetterci case di un certo livello con la scusa che le nostre abitazioni e i nostri centri di formazione devono essere accoglienti?».

(Emanuel Monte)

 

Mi sono posto anch’io questa domanda quando dovevo costruire una casa per sacerdoti in Brasile in un quartiere molto povero. Ho dato alcune indicazioni al progettista, pregandolo di farmi lo schizzo di una casa “bella e povera”, per mostrarlo agli altri sacerdoti che con me avrebbero dovuto abitarla. Egli mi ha invitato a visitare nella città di San Paolo una serie di abitazioni che aveva già realizzato. Dopo questa visita, che è durata un’intera giornata, sono tornato a casa distrutto. Avevo visto case di lusso, che apparentemente potevano sembrare anche belle, ma in realtà erano semplicemente lussuose, spesso sovraccariche di locali inutili: il trionfo dell’umana vanità. E molto spesso sul volto dei loro abitanti, sotto le convenienze dell’umana educazione, si scorgevano i tratti di una vita di famiglia tristemente disarmonica.

Ho raccontato ai miei colleghi questa dolorosa esperienza e ci siamo messi insieme a pensare come avremmo voluto fosse la nostra casa.

Certamente non volevamo costruire una lussuosa villa, ma neanche una baracca, bensì una casa che avesse allo stesso tempo i tratti della povertà e della bellezza.

Abbiamo cercato di capire il significato della vera povertà evangelica, che non consiste nella miseria ma nella condivisione; non esige il disprezzo del bello, ma esige l’armonia con l’ambiente.

La casa del prete è continuamente visitata dalle persone più varie. Si può dire che in un certo senso è – secondo una nota espressione – come la “fontana del villaggio”, dove tutti hanno il diritto di attingere. Una casa bella, ma non fastosa; comoda, ma non ricercata; aperta a tutti, ma anche con locali riservati all’intimità propria di una famiglia; intonata con l’ambiente, ma che invita tutti a crescere. Una casa semplice, ma degna dei figli di Dio che la abitano. Una casa alla quale gli altri possano ispirarsi nel costruire la propria.

Forse vi siamo riusciti, perché non solo i laici ma anche gli altri sacerdoti e lo stesso vescovo la frequentano volentieri e dicono che qui si riposa. Un giovane religioso, dopo aver pregato con noi le Lodi del giorno, commentava: «Sono stupito per la semplicità dell’ambiente; qui persino le parole dei salmi si illuminano, hanno un altro sapore e infondono la pace!».

Tutto questo vale anche quando si tratta di costruire una cittadella o risanare un quartiere, perché la tentazione di fare grandi costruzioni – che spesso si rivelano non pienamente utilizzate secondo il loro scopo e dispendiose per la manutenzione – è sempre in agguato.

Qualche anno prima ero a Recife e l’arcivescovo del tempo, mons. Helder Câmara, aveva affidato al Movimento un quartire di “mocambos” o “favelas”. Era chiamato “Isola dell’inferno”. Isola, perché ogni volta che c’era l’alta marea veniva invaso dalle acque, senza dire cosa succedeva quando c’era la piena del fiume che gli passava accanto; “dell’inferno”, perché aveva la fama di luogo pericoloso, ricettacolo di mala vita.

La prima volta che vi entrai per prendere contatto con le famiglie presi uno choc, perché man mano che avanzavo lungo la strada sentivo chiudersi le porte prima del mio arrivo. Non riuscii a parlare con nessuno, mi sembrava di attraversare un villaggio fantasma.

Mi avevano scambiato per giornalista. Seppi che pochi mesi prima c’era stata una troupe televisiva ed essi avevano visto poi sul piccolo schermo la propria miseria, esposta al grande pubblico, e ne avevano provato una grande vergogna.

Ci volle del tempo per guadagnare la fiducia della gente, ma il colpo decisivo venne da un’alluvione. In questa occasione infatti moltissime persone del Movimento dei focolari misero i piedi nell’acqua e trasportarono a spalla ragazzi e vecchi, lavorando anche di notte e mettendo a repentaglio la propria vita.

Poi ci ponemmo il problema di cosa fare. Fu un lavoro lungo e difficile. Raccogliere mezzi e distribuirli era facile. La nostra prima esperienza in questo senso fu un disastro: la distribuzione degli aiuti in occasione del Natale servì per acuire le rivalità tra i beneficiati. Formare le persone alla condivisione era più difficile. Tutti gli abitanti di quell’isola sognavano di poter uscire da quell’inferno, ma conoscevano un solo modello di vita, quello dei ricchi: possedere per sé e difendere a denti stretti i propri beni.

Abbiamo lavorato per anni, abbiamo fatto capire che la prima cosa era aiutarsi a vicenda. Loro stessi col nostro aiuto hanno innalzato il livello dell’isola con materiale di riporto; insieme hanno costruito le prime case in mattoni, cominciando dalle famiglie più bisognose.

Quando ormai l’«Isola dell’inferno» era stata ribattezzata da loro «Isola di Santa Teresina», il comune ne ha reclamato la proprietà per venderla ad una grossa ditta e farvi dei grattacieli, promettendo agli abitanti posti di lavoro nei nuovi complessi edilizi. Ma ormai era troppo tardi, perché gli abitanti da gente dispersa e litigiosa erano diventati una comunità unita, si era costituita in cooperativa e capiva molto bene che era meglio vivere in casette piccole e dignitose che fare da schiavetti nei sottofondi dei grattacieli.

Ora c’è un villaggio bello, con le acque del fiume incanalate, con l’alta marea azzurra che lambisce le sponde senza poterle oltrepassare, ma soprattutto c’è gente dignitosa che si guadagna il pane col proprio lavoro ed è orgogliosa di costruire il proprio futuro.

Qualche anno fa sono tornato in mezzo a loro e non credevo ai miei occhi. Ho chiesto ad uno di loro se fossero ancora poveri. Mi aspettavo mi dicesse di no, invece mi son sentito rispondere: «Dipende! Se per povertà intende fame e sporcizia come una volta, non lo siamo; se intende che ci guadagniamo e condividiamo il pane quotidiano, allora lo siamo e con orgoglio».

Sì, perché oggi sono rispettati e additati ad esempio e chiunque può entare in quest’isola che sa del miracolo e le porte delle case son tutte aperte e accoglienti, perché i loro abitanti hanno qualcosa di bello da mostrare anche in televisione.

Essi frequentano da anni la cittadella del Movimento dei focolari vicino a Recife, dove vi sono costruzioni belle, moderne, ben incastonate nel verde della campagna circostante. C’è un Centro Mariapoli più grande delle loro abitazioni, costruito anche per loro, con lo stesso amore, con il contributo di tutti, proprio come le loro casette. Ed essi si sentono a loro agio, si trovano a casa.

Enrico Pepe