Chiamati a fare casa

Quando ero bambino sognavo sempre che un giorno, divenuto adulto e avendo formato una famiglia, avrei avuto tanti figli e una casa grande aperta a tutti.

Questo sogno era frutto di quanto sperimentavo nella mia famiglia: vivevamo con il nonno e la domenica, la casa si riempiva di zii e nipoti. Abitavamo al centro del piccolo paese e la nostra casa era luogo di incontro per tante persone. Ogni settimana poi venivano a tavola con noi alcuni poveri che vivevano di elemosina.

Ricordo che sapevamo quando toccava a quel povero o all’altro: per me e per miei fratelli era sempre una festa riceverli in casa.

Ora da piú di dieci anni vivo in Argentina, precisamente a Buenos Aires in via Rawson 237, in un focolare sacerdotale con don Miguel Angel Blanco. Siamo di diocesi diverse e con il permesso dei nostri rispettivi vescovi, dal 1989 abbiamo cominciato quest’avventura di vita in comune con il desiderio e la volontà di cercare di creare e ricreare ogni giorno, nella semplicità della vita quotidiana, la presenza di Gesù in mezzo a noi. Io sono italiano, Miguel è argentino: due mondi e due culture diverse, ciascuno di noi con storie passate completamente differenti.

Rivedendo questi dieci anni di vita comune, mi rendo conto che la diversità dell’altro, se accettata ed amata, si trasforma in una autentica ricchezza.

Quando a fine novembre del 1989 arrivai dall’Italia in piena estate argentina, fui accolto con grande amore dai sacerdoti all’aeroporto. Ma grande fu la mia sorpresa quando, arrivati al focolare sacerdotale, mi condussero alla stanza da letto e mi trovai davanti un semplice materasso steso per terra e due sedie. Per molti mesi le valigie funzionarono come armadi. Quello che per me europeo era inconcepibile, mi resi conto che per un latinoamericano era normale.

E così abbiamo cominciato.

A poco a poco abbiamo visto insieme che la nostra casa doveva essere migliorata in modo che chiunque vi entrasse, si sentisse a suo agio.

Ora quando vengono persone a visitarci, tutti rimangono colpiti per l’armonia, la sobrietà e la semplicità che regna nel focolare.

Un giorno un amico mussulmano ci ha detto: «Nella vostra casa non ho visto nessun segno religioso, ma vi si respira un’aria religiosa, come se qui ci fosse una presenza divina».

Ed é cosi che in tutti questi anni abbiamo cercato che la nostra abitazione fosse casa non solo per noi ma anche per tanti sacerdoti che vivono con noi l´ideale dell’unità, come pure per tanti altri che ci vengono a visitare o a passare alcuni giorni con noi.

A volte, guardando le pareti della nostra casa, dico: «Se potessero parlare, quante storie potrebbero raccontare!». Un giorno, un vescovo, ci chiese di ospitare un prete della sua diocesi che stava attraversando un periodo difficile. Dopo aver trascorso un po’ di tempo con noi questo sacerdote ci diceva: «Come mi sento bene qui con voi; respiro un’aria di famiglia. Erano anni che non provavo una sensazione così». Rimase con noi più di sei mesi ed ora con gioia rinnovata e con impegno sta vivendo la sua donazione totale a Gesù nella Chiesa.

Alcuni anni fa é stato nostro ospite per tre mesi un religioso di vita contemplativa. Stava attraversando un momento di crisi vocazionale. Per noi la sua presenza era un dono, perché ci faceva scoprire la bellezza della vita contemplativa. A lui, invece, abituato per tanti anni ad una vita di silenzio e di vita eremitica, la nostra convivenza aperta all’umanità costava moltissimo. Tanto che una mattina decise di andarsene. Per noi fu un gran dolore, perché era partito senza salutarci, lasciandoci solo un biglietto di cortesia per ringraziarci dell’ospitalità.

Tre giorni dopo, di sera, suonò il campanello: era il nostro amico che, dopo aver vagato per tre giorni e due notti solo nell’immensa e anonima città di Buenos Aires, sentiva la nostalgia di tornare a casa. Quella sera facemmo festa, andando tutti insieme a cenare fuori. Ora egli è rientrato nel suo monastero e ha ritrovato la forza per vivere con serenità la sua consacrazione a Dio nella vita contemplativa.

Fare casa a chi non ne ha è, credo, la vocazione della Chiesa oggi, perché quando uno fa l’esperienza di “sentirsi a casa”, sperimenta la paternità di Dio e la fraternità nostra. Questo avviene quando si prendono sul serio la parole di Gesù: «Il Figlio dell’uomo non ha dove posare in capo». Appoggiandoci in Dio e in lui solo, siamo resi capaci di offrire un spazio amico, dove gli altri possono sostare, ritrovare se stessi e incontrarsi con Dio.

Potrei raccontare moltissime altre “avventure” vissute nel nostro focolare di via Rawson, ma riferisco solo la testimonianza di un sacerdote italiano, molto impegnato nel sociale che, durante un suo viaggio in America Latina, é stato nostro ospite per alcuni giorni.

A volte, vedendo le tante necessità pastorali e paragonandomi ad amici molto impegnati in diversi campi, mi viene la tentazione che preparare il pranzo, pulire le stanze, approntare il letto per un ospite, fare compagnia a chi racconta cose semplici e comuni, ecc..., ecco mi viene da pensare che sto perdendo tempo e che non ha senso quello che sto facendo.

Ebbene questo amico sacerdote, mentre ci salutavamo all’aeroporto, mi ha detto: «In questo viaggio sono stato in tanti posti, ho visto sacerdoti meravigliosi impegnati con i poveri, ho conosciuto molta gente che sta facendo cose bellissime, però quello che state vivendo voi nella vostra casa é la cosa più bella che ho trovato e me la porto nel cuore. Perché ciò che voi fate, forse non lo fa nessuno, mentre è quello di cui c’è più bisogno oggi nella chiesa e nell’umanità».

Ripensando al mio sogno di bambino, mi rendo conto che, seguendo Gesù e lasciando la casa e la famiglia che immaginavo, egli mi ha donato una casa più grande e una famiglia ancor più numerosa, facendomi sperimentare già su questa terra il centuplo da lui promesso nel Vangelo.

Francesco Ballarini

Una casa
anche per i politici

Chiara Lubich propone ai politici italiani un nuovo stile di far politica e mette a disposizione una casa, vicino al Parlamento, dove incontrarsi per approfondire tali rapporti. Ce ne parla l’agenzia Ansa.

Per circa mezz’ora in religioso silenzio davanti ad una timida signora dai capelli bianchi che parlava con disarmante chiarezza del principio della fraternità come base di un “patto” tra maggioranza e opposizione per una Italia migliore.

L’invito ad “amare il partito altrui come il proprio perché il bene del paese ha bisogno dell’opera di tutti” pronunciato da Chiara Lubich, fondatrice dei Focolarini, ad una sala del Refettorio, a San Macuto, strapiena e attenta, ha lasciato i politici presenti entusiasti e un po’ rapiti, certamente storditi e spiazzati.

Davanti a Nicola Mancino e Luciano Violante, Chiara Lubich ha parlato a favore di una politica di comunione centrando il suo intervento sul tema della fraternità come base di confronto anche politico. «Dei tre ideali del grande progetto politico della modernità espressi dalla rivoluzione francese - ha detto Lubich - uno è ancora al punto di partenza. Quelli della libertà e dell’uguaglianza sono stati considerati, e più o meno perseguiti; la fraternità è rimasta del tutto disattesa: fraternità, sinonimo di unità, che è, fra il resto, proprio la finalità del carisma che ci anima».

In sala tanti i politici che ascoltavano la “lezione politica” della fondatrice del movimento presente oggi in 183 nazioni. Chiara Lubich è già stata capace di parlare a uomini di diverse razze ed ideologie, e oggi ha superato a pieni voti anche la prova del confronto con i politici italiani della maggioranza e dell’opposizione, alla fine concordi pienamente, senza riserve, nel lodare l’intervento.

Oltre Violante e Mancino (presidenti rispettivamente di Camera e Senato) in sala c’erano tanti deputati e leader di partito: Castagnetti, Parisi, Mastella, Pisanu, La Loggia, Buttiglione, Selva, Jervolino, Piscitello, il ministro Bordon e il verde Boato, il presidente delle Acli Bobba, Luigi Berlinguer. (...)

A presentare la Lubich (12 lauree honoris causa e 12 cittadinanze d’onore, e candidata al Nobel per la pace) è stata Lucia Fronza Crepaz , ex deputata ed esponente focolarina, come il deputato dei Democratici Giuseppe Gambale, anch’egli presente all’incontro.

«Si vorrebbe proporre a tutti quanti agiscono in politica - ha detto Lubich - di impegnarsi in questo modo di vivere formulando quasi un patto di fraternità per l’Italia, che metta il suo bene al di sopra di ogni interesse parziale: sia esso individuale, di gruppo, di classe o di partito. Perché la fraternità offre possibilità sorprendenti. Essa consente, ad esempio, di comprendere e far proprio anche il punto di vista dell’altro, così che nessun interesse, nessuna esigenza rimangano estranei». Linguaggio e temi al di fuori della dura realtà quotidiana della politica? No, perché – spiega – «la fraternità consente di tenere insieme e valorizzare esperienze umane che rischiano, altrimenti, di svilupparsi in conflitti insanabili, come le ferite ancora aperte della questione Meridionale e le nuove esigenze del Nord».

Un programma solo per i credenti? Neppure. «Poiché Gesù, per attuare il piano di suo Padre, è morto per ogni uomo, ha originato un legame fra tutti nella possibilità di considerare un Padre comune che fa tutti fratelli. Anche i politici».

Alla fine, un appuntamento per il 24 gennaio aperto a tutti i politici in via dell’Arciconfraternita dei Bergamaschi a due passi dalla Camera. Un modo per “stimarsi ed amarsi di più”, gettando ponti per la fraternità, per confrontarsi “nel nostro spirito” anche su temi politici. Dopo l’intervento di Chiara Lubich, i politici presenti sono un po’ disorientati dalle sue parole, e i commenti vengono tirati fuori a fatica dai giornalisti.

«Queste cose – osserva Clemente Mastella, insolitamente laconico – si praticano, e non si commentano». «Mi ha colpito la profondità e la semplicità delle parole della Lubich – ha detto Pierluigi Castagnetti – che ha fatto un intervento politico e non spirituale, perché ha richiamato lo scopo ultimo della politica, e ha usato un linguaggio costituente, per il riferimento ai valori condivisi».

«Dopo queste parole – ha commentato Beppe Pisanu – sento già la fatica per una campagna elettorale fatta di botta e risposta. Credo che dovremmo competere nel senso di chi risolve meglio i problemi del Paese. Noi ci impegneremo a una campagna impostata sull’individuazione dei problemi e delle soluzioni, senza replicare agli attacchi verbali».

Analogo il proposito di Enrico La Loggia, che si dice “profondamente colpito dall’appello altissimo” della Lubich. «È possibile conciliare contrapposizione politica e fraternità: occorre abbassare i toni e puntare tutto sui contenuti, esponendoli con serenità. Questo permetterà anche ai cittadini di scegliere serenamente».

a cura della redazione