Le case e le chiese siano un segno della bellezza di Dio in mezzo agli uomini

 

La casa che accoglie

di Luigi Lavalle

Riportiamo un’esperienza semplice, come l’abbiamo raccolta dalle labbra del protagonista. Si tratta di un parroco che, dopo i momenti difficili della contestazione nel lontano ‘68, ha trovato nel Vangelo vissuto in unità con gli altri la norma che ormai da anni guida la sua vita personale e la sua attività pastorale, seminando armonia tra i sacerdoti e nelle varie comunità parrocchiali dove man mano è stato chiamato a svolgere il ministero.

Sono sacerdote dal 1968. Dopo pochi anni ho visto i compagni migliori mollare il ministero. Infatti dopo appena cinque anni dall’ordinazione ben quattro su undici hanno preso un’altra strada. Per parte mia ho chiara coscienza di essere in vocazione, ma ho paura di non farcela.

Per questo ho chiesto al vescovo un periodo di riflessione. So vagamente che esiste la scuola sacerdotale del Movimento dei focolari e ho voluto conoscerla.

Mi son trovato così a Frascati, presso Roma, con altri 90 sacerdoti di tutto il mondo: europei, asiatici, africani, latinoamericani, che stanno insieme in un clima gioioso ed estremamente aperti verso gli altri.

Un’esperienza sorprendente

Per me questa è una scuola originale, perché, per imparare a vivere il comandamento nuovo nei rapporti quotidiani, non si fanno disquisizioni, ricerche in biblioteca o analisi psicanalitiche. Lasciando da parte il ministero per un certo periodo, si affronta la vita quotidiana nei lavori più umili, dove non siamo prevenuti dalle deformazioni professionali.

Così il vicario generale di una diocesi si fa aiutante elettricista di un giovane prete. Un vescovo passa tre ore al giorno in stireria. Altri fanno compere al mercato e preparano i pasti.

Poi si fa meditazione tutti insieme e si sceglie una frase del Vangelo da mettere in pratica durante il giorno per poi comunicarsi a sera come è andata.

La vita normale motivata dal Vangelo vissuto, specialmente dal comandamento nuovo e dall’amore a Cristo crocifisso e risorto, mi apre la mente e il cuore all’Ideale dell’amore e dell’unità.

È nella sua semplicità, a volte sconcertante per la mia mentalità razionalista, una vera esperienza di una vita cristiana a me prima sconosciuta.

Eppure quella vita di comunione, che il Concilio mi ha fatto desiderare, finalmente qui la vedo fattibile, anzi realizzata.

Per la prima volta mi rendo conto che il mistero della Trinità può diventare vita trinitaria nei rapporti tra di noi.

Questa scuola di vita, piena di luce e di sapienza, in sei mesi mi ha cambiato radicalmente il modo di vivere e di pensare.

Costruire “rapporti nuovi”

Quando torno in diocesi sono mandato in una grossa parrocchia con altri quattro sacerdoti. Metto da parte il bisogno (molto umano) di essere al centro dell’azione pastorale, e trovo più realizzante il “farmi uno” con gli altri per essere in comunione con loro. Il mio cambiamento di atteggiamento sorprende gli altri quattro, e si mettono a loro volta in ricerca. In poco tempo ognuno si lega ad esperienze ecclesiali diverse: Comunione e liberazione, Neocatecumenali, Azione cattolica. Le scelte diverse non impediscono, anzi rafforzano la profonda comunione che ormai ci lega.

Nasce con il vescovo un rapporto più autentico. Sento d’aver superato quello giuridico e non sperimento più l’insofferenza dell’autorità, come ai tempi della contestazione. Ora egli è per me un padre e un fratello da amare di più, senza soggezione né adulazione. Per esprimere il nuovo modo di concepire il rapporto con lui vado a trovarlo non per sottoporgli problemi ma solo per dirgli che gli voglio bene, e per raccontargli della nuova scoperta di vita. Dopo qualche giorno il segretario mi riferisce lo stupore del vescovo per questa visita.

Avverte la mia disponibilità totale anche nelle difficoltà e si sente amato e capito. Cresce con lui un clima d’intesa, nel rispetto del ruolo di ognuno. Un giorno mi chiede di accompagnarlo in macchina. Siamo soli e, a sorpresa, mi domanda di esercitare nei suoi confronti la correzione fraterna.

Nel 1988 il nuovo vescovo mi destina ad un’altra parrocchia, anch’essa abbastanza impegnativa. Il predecessore mi chiede di continuare ad abitare in canonica con me. Di fronte alla richiesta mi passa nell’anima la paura di dover subire un forte condizionamento. Ma è un fratello da accogliere e subito si rivela che la sua presenza è una grande ricchezza, fonte di informazioni per il mio inserimento, e il clima di famiglia che si genera in casa è motivo di gioia per noi e di edificazione per la comunità.

Un sacerdote vicino è colpito da depressione ed è accolto per otto mesi nella nostra casa. Non è un problema, ma una benedizione che ridimensiona il ritmo dell’attività e dà più spazio ai rapporti personali.

Dopo poco tempo un seminarista ritorna in diocesi dopo gli studi a Roma. Ha qualche difficoltà. Il vescovo prima di ordinarlo mi chiede di accoglierlo per una verifica. Rimane due anni. Ci sono momenti forti nella verità, ma l’amore testimoniato in mille modi e con naturalezza scioglie ogni riserva.

Nello stesso anno un diacono di un istituto missionario, vocazione adulta, chiede di fare in parrocchia l’anno di pratica pastorale in preparazione al presbiterato e viene ad abitare con noi.

Mi sembra di esagerare. Però non sono andato a cercarlo. È la Chiesa che me lo affida attraverso i suoi formatori. La casa è sovraffollata, ma la sistemiamo in tal modo che ognuno si senta a suo agio. Ed è una nuova grazia per me e per la comunità.

Un giovane, che da piccolo aveva espresso il desiderio di farsi prete e poi l’aveva perso, a contatto con questi seminaristi e osservando il clima di famiglia che c’è in canonica, ha ritrovato il coraggio di dire il suo “sì” come missionario per gli emigranti.

Malattia del mattone
o costruzione della comunità?

Quando nel 1988 sono arrivato in questa parrocchia, mi è stato chiesto dalle circostanze di restaurare la chiesa. Temo di sottrarre tempo prezioso per la pastorale ed ho paura della “malattia del mattone”. Ma mi sembra che anche questa attività sia un modo concreto per mettermi al servizio della comunità. Percepisco che il mio compito non è quello di comandare, ma di creare un clima di fiducia e di stima tra l’architetto, il restauratore dei dipinti, il capomastro, il sacrestano, e ognuno dei tecnici che intervengono nei lavori e di preparare i parrocchiani ad accettare gli inevitabili cambiamenti.

Mi trovo in una ginnastica quotidiana a perdere i miei gusti e desideri per valorizzare l’opera di ciascuno. Nasce un’intesa che sorprende, nonostante i tanti imprevisti.

Dopo due anni, a lavori compiuti, c’è l’ammirazione di tutti quelli che frequentano la chiesa per la semplicità, l’armonia dei lavori portati a termine, e nessuno si lamenta nonostante le molte novità apportate nel ridurre il numero di quelle statue, candelieri, lumini devozionali che non si addicevano al decoro della casa di Dio.

Nel saluto di addio, quando ho lasciato anche questa parrocchia, mi è stato rivolto un “grazie!”, «perché, dopo l’accurato restauro, ci lascia una chiesa tanto bella da essere segno tra noi dell’armonia di Dio».

Una sosta presso la fonte

Allo scadere di nove anni di parroco in questa località, rimettendo il mandato nelle mani del vescovo, gli chiedo di tornare per alcuni mesi alla scuola sacerdotale prima di assumere altri compiti. La risposta è affermativa.

Questa volta la Scuola sacerdotale non è più a Frascati, ma nella cittadella del Movimento a Loppiano e precisamente ad Incisa Valdarno.

L’ambiente per me è nuovo e nuovi sono anche i responsabili della Scuola. Il primo passo, quando sono arrivato, è stato quello di perdere l’idea di conoscere già l’esperienza a cui andavo incontro, e la tentazione di fare il confronto con quella precedente.

Perciò è stato necessario buttarmi a vivere l’attimo presente e riconoscere la concretezza e l’originalità dell’amore di Dio momento per momento, con un’apertura completa del cuore e della mente.

La costruzione che ci ospita è un antico convento francescano restaurato con gusto, ma non c’è posto per avere ognuno una camera singola.

All’inizio ho condiviso la stanza con un sacerdote sloveno che lavora in Siberia, dopo due mesi con uno della Corea e infine con un altro della Costa d’Avorio.

Ogni volta mi ha sorpreso la profonda unità che si è costruita fra noi, fino a non sentire nessun disagio nonostante le evidenti differenze. Si poteva dire, parafrasando san Paolo, che non c’è più europeo, africano o asiatico, ma solo dei fratelli.

Tutto rose e fiori allora? No! Le difficoltà ci sono, ma c’è anche un "segreto" per trasformarle in amore: basta riconoscere in esse Gesù crocifisso e abbandonato e abbracciarlo per sperimentare la risurrezione. Non ha detto l’apostolo che «siamo passati dalla morte alla vita, perché abbiamo amato i fratelli»?

Luigi Lavalle