Sentirsi a casa

Preparando questo numero della rivista, tutto incentrato sul tema della casa e della chiesa, ci tornavano alla mente le parole evangelicamente semplici e profonde che Toni Weber rivolgeva ogni mattina ai sacerdoti e ai seminaristi durante gli anni in cui era responsabile della Scuola sacerdotale dell’Opera di Maria per aiutarli a vivere la spiritualità dell’unità. Alcuni di questi pensieri riguardano proprio la casa. Far casa ai sacerdoti era, infatti, il desiderio suo più profondo. Allora li abbiamo raccolti e li offriamo ai nostri lettori.

«Venendo a contatto con tanti sacerdoti – così egli scriveva – sentivo un’esigenza fortissima di aiutarli a trovare una casa, una casa con la necessaria “intimità” e quell’atmosfera di famiglia che rifletta l’armonia, l’ordine e la semplicità della casa di Nazaret.

«Aveva ragione Charles de Foucauld quando diceva che la casa dove si abita influisce sulla mentalità, impregna il modo di vivere e di pensare.

«Ora chi vive la carità diventa capace di promuovere l’ordine, l’armonia nella sua persona e attorno a sé. Questo è molto importante per noi sacerdoti, perché dobbiamo essere costruttori dell’Ecclesía, della comunità cristiana, e quindi siamo a servizio anche del luogo dove l’assemblea dei cristiani s’incontra.

«Certo non si possono avere naturalmente tutti i doni. Il buon gusto per l’arredamento o una sensibilità artistica alcuni l’hanno di più, altri di meno. Però possiamo aiutarci, per scegliere insieme un vestito o le tende da mettere in stanza, per vedere quali quadri appendere e come sistemarli, per fare più accogliente la casa... I vestiti, gli arredi sacri, gli edifici, sono la carta di presentazione di un parroco. Spesso basta andare in sacrestia per capire com’è la parrocchia. Sarebbe tanto bello se l’armonia dei luoghi di culto fosse una testimonianza della presenza di Dio che è bellezza.

«E questo vale anche per le case parrocchiali. Alle volte si ha l’impressione che il prete si fa il proprio castello (my home my castle – come dicono gli inglesi), un posto cioè dove vivere una vita borghese. Altre volte si esagera in senso contrario: la gente entra ed esce ad ogni ora, il sacerdote non ha nemmeno un orario per mangiare, o non mangia ordinatamente; o ha sempre gente, anche quando mangia, per risolvere problemi o per chiacchierare. E la casa parrocchiale diventa una piazza dove non c’è neanche la possibilità di un momento di raccoglimento perché tutto è confusione, c’è sempre ad alta voce la radio o la televisione, ed impossibile creare un rapporto profondo tra le persone...

«In Africa e in America Latina ci sono tante cappelle costruite in diversi punti per seguire comunità lontane o disperse. Si arriva lì in macchina o a cavallo una volta al mese, ma spessissimo non c’è nessuno che curi con buon gusto quei posti. Sarebbe bello educare pian piano le persone, con delicatezza, a rendere accoglienti questi luoghi d’incontro. A volte basta un fiore... Anche in mezzo alla più grande povertà questo senso dell’armonia dell’ambiente è indispensabile per costruire la comunità.

«Entrando nelle case che accolgono dei cristiani, si dovrebbe notare che dietro c’è uno stile evangelico, un ideale di vita, da come le persone si vestono e si rapportano. Si dovrebbe ascoltare un messaggio e fare un’esperienza d’amore, si dovrebbe avvertire la presenza di Dio, e allora tutti sentirebbero “a casa”.

«Questo è molto importante nella vita dei sacerdoti perché li aiuta a diventare esperti nell’arte di trasformare in Chiesa la gente dispersa»1.

 

a cura della redazione