Il coraggio di aggiornarsi

 

Si parla spesso oggi, su giornali e riviste, sia ecclesiastiche che laiche, e negli altri media, della stasi e persino del regresso che le Chiese cristiane, compresa quella cattolica, stanno subendo sotto l’incalzare piuttosto irruente del relativismo in tutto lo scibile, dalla filosofia all’etica, alla teologia, all’interpretazione della Scrittura, fino alla rivisitazione della storia e delle grandi figure storiche. Più nulla è come fino a ieri si pensava. Ma se in tutti gli ambiti del sapere questo problema provoca la critica, anch’essa relativa al tempo, per gli addetti al campo religioso il relativismo assoluto diventa fonte di angoscia e di perdita, forse incosciente ma lentamente corroditrice, della propria identità e professionalità.È logico allora, per il mondo sacerdotale, parlare di crisi di fronte alle sfide del mondo attuale per il quale non si sono ancora trovate adeguate soluzioni, anche perché è nota a tutti la difficoltà, specialmente per le persone più anziane, di cambiare la mentalità acquisita per guardare serenamente al nuovo e saperne vedere anche i lati buoni. È questo un problema che ha riguardato tutta la storia dell’ umanità, epoca dopo epoca.Eppure bisogna dire che, epoca dopo epoca, ci sono sempre state delle lente e sofferte riprese che non si possono dimenticare e che, se si guardano bene, coincidono spesso con il ritorno a determinate vecchie certezze anche se, di volta in volta, illuminate da una nuova luce e da una nuova prassi. Per portare un esempio nel mondo cattolico, il passaggio dal Concilio Vaticano I al Vaticano II è stato una di queste riprese epocali che però, ancora dopo quarant’anni, una parte del mondo ecclesiale stenta a capire, malgrado la nuova luce che il Vaticano II ha portato. Per parlare di un solo elemento di esso che è capace per se stesso di trasformare il vecchio – seppur santo – in nuovo nella vita della Chiesa, si può accennare al passaggio dalla spiritualità individuale alla spiritualità collettiva, nuova anche per il fatto che gli stessi ordini religiosi basati sulla vita comune trovano questa spiritualità collettiva una novità indispensabile se vo-gliono sopravvivere. E questa novità vale anche per la famiglia e per ogni gruppo umano.Il concetto non è certamente nuovo: basterebbe pensare al cistercense inglese Baldovino di Ford il quale nel secolo XII scrive: «La Chiesa primitiva fu fondata sulla vita comune», «dalla vita comune ebbe inizio l’infanzia della Chiesa appena nata», «dagli stessi apostoli la vita comune prese l’esempio di come muoversi…», fino ad arrivare ad affermare: «questa vita comune che è in Dio, che è di Dio, che è Dio…» ed a sottolineare che «dalla stessa Sorgente della vita (la Trinità) è fluita la vita comune».Ma occorre dire che la vita comune può esistere anche senza “comunione di vita” interindividuale, come lo è la comunione trinitaria; così come è possibile per i cristiani partecipare ogni giorno alla messa e fare la comunione col Corpo di Cristo senza mai pensare che ogni prossimo si deve amare perché in ognuno c’è Gesù – «Qualunque cosa avrete fatto al più piccolo di questi miei fratelli l’avete fatto a me» – e tutti insieme «siamo il suo Corpo».Dov’è dunque la novità? Basterebbe meditare, negli articoli che seguono, tutto quanto riguarda quella intuizione divina di Chiara Lubich, risalente agli anni 1940, sull’abbandono di Gesù in croce, per capire quale dovrebbe essere la maturità spirituale del cristiano. Maturità che corrisponde in tutto e per tutto alla maturità umana anche dal punto di vista psicologico, etico e sociale: essere amore per ogni prossimo, fino a dare la propria vita. Nel messaggio che Chiara Lubich ha inviato ai più di mille presenti al congresso “Chiesa oggi”, ha detto che Gesù abbandonato è il “vero sacerdote” invitandoli a prenderlo come modello «affinché la Chiesa oggi si trovi arricchita di sacerdoti-Cristo, di sacerdoti-vittime per l’umanità, autentici Cristo, pronti a dare la vita per tutti».Questa è la comprensione che ci sembra avvenuta nei partecipanti, con esplosione interiore ed esteriore di gioia, in questo congresso modulato da una sapiente regia che, anche con momenti artistici, ha favorito un vivace interscambio di impressioni sui temi e sulle esperienze vissute di sacerdoti, diaconi e seminaristi che si sono lanciati da molto tempo, o anche nei brevi giorni del congresso, a vivere la spiritualità di comunione, passando – come è stato detto – dalla costruzione del “castello interiore” alla costruzione del “castello esteriore”: ossia a vivere con Gesù fra noi se siamo uniti nel Suo nome. Un noto teologo irlandese ha sintetizzato così questi concetti. «La presenza di Gesù fra chi è unito nel suo nome era particolarmente affascinante, e per questo ci avete invitati a fare la scelta di Gesù nel suo abbandono come unico nostro bene. Avete avuto l’audacia di presentare la spiritualità pura dell’unità anche ai principianti, così che tutti si sono sentiti attratti dall’Amore eterno che, come Chiara ripete, è proprio Gesù abbandonato». E un altro teologo: «Questa nuova antropologia che il carisma dell’unità propone è decisiva per la nuova umanità, per la Chiesa del futuro. Sento un grande desiderio di dare la vita per questo».

Silvano Cola